Resistere alla retorica


Nei commenti al post precedente sulla Resistenza, un lettore mi ha fatto notare come non sia giusto prendere in giro la Resistenza, come non sia giusto parlare di cose che non si conoscono e di come sia giusto mantenere viva la memoria di periodi storici che non si sono mai chiusi (stiamo vivendo ancora sotto il fascimo, travestitio da PdL).
Sulla questione di non conoscere, non è mio compito giudicare me stesso, ma di certo, non essendo uno storico professionista specializzato nello studio della Resistenza, mi considero meno che un esperto. Tuttavia, se vengo giudicato in questo modo, mi sento in diritto di applicare lo stesso metro a chi m'ha cucito addosso l'impietoso giudizio.
Partiamo dalla fine: oggi siamo in pieno fascismo. Dire una cosa del genere dimostra la propria non conoscenza né del periodo storico in questione né di quello presente. Innanzitutto perché parlare di un generico fascimo non ha senso. È esistito il fascismo delle origini, c'è stato il fascismo al potere dei primi anni, c'è stato il fascimo alleato dei tedeschi e il fascismo in guerra. E faccio solo un riassunto per sommi capi.
Se volessimo paragonare l'attuale maggioranza parlamentare ad una fase del fascismo, difficilmente potremmo accostarla all'ultimo fascismo, quello che la Resistenza ha contribuito a far cadere. Si era in guerra, c'erano le colonie, stavamo perdendo, al fronte i soldati contadini morivano come mosche, senza senso. Dopo il '43, cioè quando la Resistenza si fece effettiva, il fascismo praticamente non esisteva più: l'Italia era spaccata in due e occupata da due eserciti stranieri. Oggi la situazione non è quella e non credo ci sia bisogno di discuterne.
Così come la situazione odierna non è paragonabile a quella dell'avvento del fascismo. Allora l'Italia (come molte parti dell'Europa) era in fermento. La Grande Guerra fu, oltre che un bagno di sangue spaventoso, uno sconvolgimento sociale, politico ed economico che non ha più avuto paragoni negli anni a venire. Si respirava odore di rivoluzione, i contadini e gli operai erano reduci di guerra, sapevano sparare e volevano sparare. La polizia sparava e i fascisti sparavano. Si voleva “fare come in Russia” e la sinistra non era un comitato d'affari come oggi, era fatta di socialisti che cominciavano ad avere numeri importanti in Parlamento e anarchici che si preparavano attivamente per sovvertire l'ordine costituito. Era un tempo in cui un poeta poteva radunare intorno a sé abbastanza gente in armi da conquistare e occupare una città. Probabilmente è stata l'unica volta in cui in Italia i ricchi hanno avuto paura della plebe. Questo è il clima in cui si è affermato il fascismo. Se qualcuno ha voglia di paragonare le due situazioni, è libero di farlo. Ma non mi pare il caso.
Resta il fascismo di governo, ma ancora trovo difficile paragonare le due situazioni: era un'Italia così diversa sotto ogni punto di vista da rendere difficile un paragone serio.
Quindi, stabilito che il livello di “non conoscenza” storica di entrambe le parti sia equiparabile, proviamo ad andare avanti.
La Resistenza è morta il 26 aprile 1945. La tomba è stata profanata il 2 giugno del 1946 e da allora non c'è stato giorno in cui non ci abbiano pisciato sopra. È morta soprattutto per mano dei due grandi partiti di allora, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. I partigiani non erano certo andati sui monti per scegliere se diventare i burattini della Russia o degli Usa. Volevano un'Italia diversa da quella che avevano visto, ma non è andata così. Siamo diventati un protettorato americano e ci è andata bene: potevamo fare la fine dell'Ungheria (o anche della Grecia, se dobbiamo dirla tutta). Ci siamo barcamenati con destrezza e ne siamo usciti relativamente bene.
Ma dobbiamo ricordare che il partito che ha sempre preteso di rappresentare la Resistenza, il PCI, era tanto lontano dalle idee politiche dei partigiani quanto lo era la DC. I partigiani non avevano certo combattuto per far andare al potere un partito dedito al soffocamento delle libertà, al conformismo, bigotto e bolso come i democristiani amici suoi.
E qui arriviamo al punto. Perché la Resistenza è stata trasformata in retorica dal nuovo Stato repubblicano. E nel momento in cui l'ha trasformata in retorica, l'ha uccisa. E il PCI si è appropriato di quella retorica, volendo far credere di essere stato l'unico interprete della Resistenza. E c'è riuscito, infatti oggi i mufloni ignoranti che scrivono sui giornali, o siedono su qualche poltrona, o tutt'e due, criticano la Resistenza per criticare la sinistra e insultano la sinistra per insultare la Resistenza. Ma non è colpa di quei poveri disadattati che con un diploma in enologia e una carriera da PR in discoteca si son trovati ministri; è colpa di chi per 50 anni ha fatto finta di essere dalla parte dei partigiani e ha voluto spacciarsi per erede e continuatore della loro opera.
Ed è amaramente ironico, perché a leggere i racconti di chi il partigiano l'ha fatto, è chiarissima la volontà di abbattere ogni retorica, di ripartire senza autocelebrazioni e autoesaltazioni. Ma invece sono stati inascoltati anche in questo, purtroppo.
Per quanto riguarda i ventenni che diventano partigiani oggi, il problema non è certo che aiutino qualche reduce a salire sul palco o che organizzino il coro delle mondine. Anche io conosco i canti degli alpini e se mi capita canto Sul ponte di Perati, ma non faccio finta di essere un reduce della campagna di Grecia. E soprattutto, non vivo nella paranoia di essere sul Don con i russi che mi vogliono far secco. Ma questo non sarebbe ancora il problema, il problema è che quelli che pensano di essere in pieno fascismo sono talmente accecati dalla loro retorica da arrivare a sostenere la parte politica che più di tutte ha agito contro i principi della Resistenza: la sinistra.
Che, una volta scrollatasi maldestramente di dosso i drappi rossi falcemartellati, ha dato il via ad una serie di attacchi militari e occupazioni di Stati sovrani che sono l'unica cosa che possa in qualche modo ricordare il fascismo (cioè, non lo ricorda, ma se proprio dobbiamo fare delle analogie...).
Poi si potrebbe parlare a lungo di questo curioso fenomeno: del perché si dedica passione e fatica a combattere una cosa che non esiste. Perché se qualcuno paragona il PdL al PNF, mi dispiace, ma non ha idea di cosa fosse il fascismo, né alle origini né al governo. Confonde la storia con la memoria, e mescola i ricordi personali con una effettiva conoscenza di quel periodo.
Io nutro il massimo rispetto per chi, di fronte al disastro e alla guerra, ha deciso di prendere le armi per cercare di costruire un mondo migliore. Mi rammarico che non sia stato sufficiente, perché poi i fascisti sono rimasti dov'erano e tutti coloro che dal fascismo avevano tratto vantaggio non sono stati tolti in massa dall'apparato pubblico come doveva essere fatto. Mi fa male pensare che i partigiani siano morti per aprire la strada al PCI e alla DC, che si sono trasformate nell'orripilante caleidoscopio di ignoranza, stupidità e volgarità che chiamiamo “politica”.
Ma non prendo sul serio chi va ad ascoltare le parole di un vecchio novantenne che fa fatica a camminare: le sue scelte di 70 anni fa non lo rendono infallibile, nemmeno quando parla ex cathedra, e se pensa di essere governato dal fascismo, mi dispiace ma sbaglia. Non prendo sul serio chi si iscrive all'ANPI, perché manca di rispetto a chi ha sofferto sul serio sui monti. Non prendo sul serio chi chiama “fascista” qualunque cosa si muova. Non prendo sul serio chi, pur non sapendo, accusa me di non sapere.
Non prendo sul serio tutti gli antifascisti con le bandierine che cantano Bella ciao, perché non siete diversi da me: siete dei poveri sfigati come me, che non contano un cazzo come me, che sono nati in mezzo agli agi e con la pancia piena come me, e che possono permettersi il lusso di fare gli antifascisti senza fascismo perché tanto non c'è nessun fascismo nei dintorni. Se ci fossero le squadracce come negli anni '20, se ci fossero le SS come nel '43-'44, sareste tutti nascosti e probabilmente fareste come i socialisti negli anni '20: stareste buoni ed allineati alla linea del partito, che a parole incitava alla rivoluzione e nei fatti fermava ogni più piccolo sussulto di protesta. “Pompieri” li chiamavano. E lascereste quei pochi che avevano deciso di fermare le Camice Nere con la forza abbandonati a loro stessi, perché non erano sufficientemente ortodossi e proni ai voleri dei capi partito. E ci regalereste altri ventanni di dittatura.
Conosco gli antifascisti di vent'anni e conosco la retorica bolsa che si portano dietro. E non mancherò mai di fare dell'ironia su costoro.

25 aprile e revisionismo storico

Ma nemmeno per scherzo, non ho nessuna intenzione di parlare di 25 aprile, se non per dire che sono in Italia, c'è il sole, ieri sera mi sono spanzato di polenta e baccalà e che del 25 aprile ha smesso di fregarmene qualcosa da quando ho scoperto che all'Associazione Nazionale Partigiani si iscrivono ogni anno un sacco di ventenni. Perché bisogna averne un paio bello grosso per fare il partigiano oggi, con tutte le SS che girano per Roma e Milano.

Io ho deciso di iscrivermi all'Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini, invece. Perché no?

Arte, artigianato, videogiochi e lame nascoste

Questo post parla di videogiochi. Questo post rivela parti importanti dell'opera. Non proseguite se non a vostro rischio e pericolo. Visto che da poco è uscita la versione per PC, visto che ha venduto 7 milioni di copie, visto che ha ottenuto 127 copertine in 32 Paesi (nuovo record) e soprattutto visto che lo sto giocando in questi giorni, dedicherò un post ad Assassin's Creed 2.
Ceiling Ninja is quietly judging you

Per inquadrarlo esaustivamente, dico subito che, in quanto videogioco, è un ottimo videogioco: c'è una giusta mescolanza di generi, stealth, action, puzzle e platform che lo rende godibilissimo, ma darò per scontato che il lettore sappia di cosa si parla.

La storia è nota. Nell'Italia del Rinascimento, siete Ezio Auditore, l'ultimo appartenete per diritto di sangue alla setta fondata da Ḥasan-i Ṣabbāḥ, gli assassini appunto, e dovete combattere i Templari che vogliono dominare il mondo. Gli autori hanno dunque voluto pescare in quella forma di leggenda moderna rappresentata dai templari, accettando e riscrivendo la tradizione che li vuole sopravvissuti a sé stessi e custodi di un potere infinito.

Uno degli obiettivi che gli sviluppatori hanno sempre dichiarato prioritario è stata la possibilità di far rivivere al giocatore l'Italia del Rinascimento. Ci sono riusciti? Vediamo...

La prima cosa da tenere in considerazione è che il gioco (così come il suo predecessore) non è di ambientazione storica, ma contemporanea: è ambientato nel 2012 (certo, proprio quel 2012, quello dei Maya) e il giocatore in realtà è un uomo moderno che viene fatto sedere su di una sedia speciale e gli vengono fatte rivivere le memorie di Ezio Auditore, suo antenato. Il gioco non ha quindi nulla di storico, ma fantascientifico; anzi, il gioco deve moltissimo al film The Matrix: oltre alla poltroncina che ti fa credere di essere nel Rinascimento, il mondo attorno al personaggio viene costruito tramite una specie di costruzione computerizzata in 3D, proprio come in The Matrix, e soffre di continui glitch che dovrebbero simulare la natura informatica di quella realtà; proprio come in The Matrix, il prescelto inizia a ottenere nel mondo reale gli stessi superpoteri che aveva nel mondo virtuale. L'unica differenza è che in The Matrix il programma è verde, in Assassin's Creed 2 è bianco.

No, anche questo è copiato

Non c'è dubbio che gli sviluppatori siano riusciti a ricostruire i più importanti monumenti di Firenze e Venezia in maniera abbastanza precisa, anche se si notano spesso dei problemi con le proporzioni: a Firenze il campanile di Giotto nel gioco è alto circa due volte la cupola del Brunelleschi; Piazza S. Marco a Venezia è estremamente più piccola che nel vero; a parte gli edifici principali, in entrambe le città il tessuto urbano è totalmente slegato da quello originale. Questo si nota particolarmente per Venezia, che – per le ovvie ragioni tecniche – non ha potuto cambiare più di tanto negli ultimi 700 anni, a parte qualche canale interrato e la basilica della Salute. Si può dire dunque che Ubisoft ha fatto bene i compiti, perché al giorno d'oggi ricostruire un edificio in maniera dettagliata anche per una console di gioco non è più impossibile, ma ha tralasciato completamente la verosimiglianza.

Altro problema è la recitazione. Della versione doppiata in italiano non è neanche il caso di spendere più di due righe. Siccome noi abbiamo i doppiatori più bravi del mondo, l'adattamento è il solito cazzotto sui denti.

Ma lasciamo perdere. Perché stranamente anche la versione inglese ha un problema simile. Siccome il gioco è ambientato in Italia, hanno pensato bene di far parlare i personaggi metà in italiano metà in inglese. Nella stessa frase. Ciò significa che tutti i personaggi parlano la parte in italiano come ogni inglese che rispetti, cantilenando ogni sillaba e allungando le vocali senza motivo, mentre l'inglese verrà pronunciato con un finto accento italiano. In pratica è come sentir parlare Joe Pesci ubriaco.

Fuck my mother? That's what you fucking tell me? You motherfucker you!

Al contrario, le voci della folla in sottofondo sono state doppiate da attori italiani che parlano in italiano senza accento. L'unico problema è che imprecano come fossero dei tamarri qualunque: non credo di aver mai sentito così tante parolacce in un videogioco come in Assassin's Creed 2, e tutte assolutamente gratuite e prive di un contesto adeguato. Il culmine si raggiunge quando Ezio definisce un prototipo di macchina volante, che non funziona, “quel pezzo di merda” (immagino traducendo l'inglese piece of crap). È comprensibile che per uno straniero quelle parolacce non abbiano alcun valore, ma penso di non essere l'unico giocatore al mondo in grado di comprendere italiano e inglese.

Altro punto poco riuscito del gioco è la colonna sonora. In un gioco ambientato alla fine del '400, ascoltare musiche che sembrano prese da quelle dei menu di Mass Effect è un pugno allo stomaco. Stiamo parlando di un periodo interessantissimo e fondamentale per la musica mondiale ed è un vero peccato che si sia tralasciato questo aspetto, a favore di qualche jingle da B-movie fantascientifico.

A questo aggiungete una trama esilissima e stereotipata, che però in questa sede non interessa.

Ma perché parliamo di questo? Perché un interessante articolo dal titolo Video games can never be art, dove si presentano in realtà le due tesi contrapposte (non lo saranno mai contro lo sono già), mi ha fatto pensare. Per prima cosa ho pensato che non sono d'accordo con nessuna delle posizioni, per il semplice motivo che parlare di arte significa parlare del sesso degli angeli, visto che non esiste una definizione univoca di arte, e comunque qualunque definizione il vostro interlocutore usi, ha sempre il significato di qualcosa di nobilmente metafisico che si contrappone al vostro gretto materialismo maschilista. È un vicolo cieco.

Se invece riformuliamo, e ci chiediamo “possono i videogiochi essere una forma di espressione culturalmente rilevante?” si perde l'esigenza di paragonare il videogiochi alla Cappella Sistina e ci si focalizza sul loro valore intrinseco, si giudicano per quello che sono e non per quello che qualcuno presume debbano essere. In secondo luogo, si accetta il fatto che i videogiochi siano un fenomeno che coinvolge la società nel suo complesso e non una nicchia. Terzo, schiva la dicotomia “cultura alta-cultura bassa”.

In breve, quello che secondo me è interessante è definire in che modo la forma videogioco può soddisfare o creare le esigenze espressive della società e se sia quindi possibile giudicare un videogioco per la capacità di esprimere i sentimenti, le aspirazioni e l'estetica della società medesima e divenga capace di “parlare” non solo al ragazzino che vuole sparare coi siluri fotonici, ma a molte persone in tempi diversi e riesca a stimolarle anche sul piano intellettuale.

Ho scelto Assassin's Creed 2, innanzitutto perché lo sto giocando. Poi, perché è un fenomeno mainstream, per usare un anglismo. Terzo, perché è costato diversi milioni di dollari (numeri a due cifre). Quarto, perché Ubisoft, colosso del mondo videogiochico, ha deciso di mettersi a far cinema, ed ha iniziato proprio con Assassin's Creed, producendo Assassin's Creed Lineage, che in pratica è un cortometraggio prequel di Assassin's Creed 2. Lo potete vedere su YouTube cliccano qui per la versione inglese oppure qui per la versione italiana.

Ciò detto, bisogna arrivare ad una conclusione. Questo gioco si eleva al di sopra del semplice videogioco? No. Riesce ad essere un prodotto culturalmente rilevante? No.

Perché?

Perché gli autori del gioco sono certamente degli ottimi professionisti. Direi che sono degli ottimi artigiani: l'uso della tecnologia a disposizione ha portato a creare un prodotto tecnicamente ineccepibile. Quello che manca è la conoscenza approfondita della materia che hanno scelto di trattare. Per ricreare davvero il passato non basta ricostruirne gli edifici e vestire i personaggi con abiti d'epoca, inscenando duelli all'arma bianca e infilandoci a tradimento personaggi famosi come Lorenzo de' Medici e Leonardi da Vinci. Bisogna sapere come avrebbero ragionato degli uomini del tempo nei rapporti col potere, nei rapporti col nemico, nei rapporti con gli altri. Personaggi che parlano come se fossero usciti da un vecchio film western o da qualche fanfiction fantasy scritta da un adolescente non reggono lo scrutinio di un giocatore mediamente acculturato.

Ordire trame secondo gli stereotipi narrativi ollivuddiani non può che far pensare ad un prodotto di massa, e quindi privo di valore culturale.

Tratteggiare i personaggi come macchiette da avanspettacolo (sul modello nintendiano it's a-me, a-Mario!) distrugge ogni forma di immedesimazione e verosimiglianza: va bene che noi italiani siamo tanto simpatici e gesticoliamo, ma quegli italiani in particolare hanno praticamente fondato il mondo moderno, pensare che parlino come degli emigranti illetterati mette in mostra non poca insipienza.

Ricordare ogni 5 minuti che quella che vedete non è la realtà ma una sua ricostruzione digitale non è una geniale trovata per amalgamare fantascienza e storia: è fare a pezzi la sospensione di incredulità, che è la conditio sine qua non di ogni storia. Significa copiare e male The Matrix.

La musica: la musica è fondamentale per ricreare l'atmosfera. Una colonna sonora che rifletta la grande opera musicale dell'epoca avrebbe certamente aiutato a dare spessore al gioco.

Come si vede, per tutte queste cose non occorrono milioni di dollari. Basta collaborare con qualcuno che se ne intende, possibilimente non qualche Ph.D. in cerca di soldi facili che parla solo per iperboli, come di solito fanno gli “esperti” consultati in questi casi.

Finora i videogiochi non hanno mai superato il loro limite di mero strumento di intrattenimento. Non ci è riuscito nemmeno Assassin's Creed 2, nonostante le roboanti promesse degli sviluppatori. Potranno mai i videogiochi essere una forma espressiva culturalmente rilevanto? Sì, quando qualcuno riuscirà a fare quel piccolo passo che spinge oltre l'artigianato di alta qualità e riuscirà a parlare anche all'intelletto del giocatore.

Qualcosa del genere, ma che poi posso sparare a Platone

Si era sulla strada buona con un videogioco di qualche anno fa, Mafia. Un gioco ottimo sul piano tecnico, ma anche capace di ricostuire in maniera filologicamente corretta l'America degli anni '20 e '30, di narrare una storia credibile lasciandosi andare ad un piacevolissimo citazionismo cinematografico. Purtroppo nessuno ha raccolto il testimone. Ad agosto uscirà il sequel, stranamente intitolato Mafia II, e staremo a vedere.

A questo punto, di solito entrano in scena i videogiocatori, che cominciano ad enumerare tutti i videogiochi della storia, cercando di spacciarli come opere d'arte che nemmeno Domenico Ghirlandaio. Alla fine vi tirano fuori qualche RPG giapponese, quelli con le trame ridicolmente complicate, i dialoghi drammatici che non finiscono mai e le donne anoressiche ma con le tette a dirigibile.

Ci vuole olio di gomito

Mi perdoneranno i lettori che non conoscono l'inglese, ma il video sotto mi è sembrato davvero interessante. Il senso è che in America hanno capito che un lavoro fatto bene si ottiene mettendo a farlo una persona motivata a fare un lavoro fatto bene, e non un tipo che pare uscito da American Psycho. Solo che hanno avuto bisogno della più grande crisi economica dal '29 a oggi per capirlo.

Frutta fresca!

Ci sono quelli come me, che sono nati in piccoli paeselli di campagna, che sono troppo giovani per essere cresciuti in un'economia agricola, ma sufficientemente vecchi da averne visto gli ultimi strascichi. In casa avevamo il Commodore 64 e davanti alla porta di casa le galline. Voleva dire che si viveva in maniera abbastanza contigua alla cosiddetta “natura”, agli animali domestici, alle coltivazioni.

Una delle cose che da bambino mi colpivano di più erano gli abitanti di città che per qualche motivo capitassero dalle nostre parti. Per me, per noi, erano uno spettacolo impagabile: il loro approccio alla natura era talmente lontano dal nostro, la loro scala di valori talmente sballata che ci sembravano degli alieni un po' scemi. I cittadini facevano cose strane, per esempio trovavano adorabili le galline. No dico, le galline. Come si fa? Per noi le galline erano delle bestiole che servivano a fare uova e brodo; per loro erano dei cuccioli che provocavano sentimenti di empatia. Evidentemente questi cittadini avevano qualche rotella fuori posto.

Col tempo ho dovuto abituarmi, per forza di cose, ai cittadini. Al fatto che parlino al proprio cane come fosse un bambino, al fatto che bacino il proprio gatto, al fatto che considerino topi e conigli animali da compagnia. Quando dico “abituato”, intendo che ho smesso di ridere loro in faccia, non che abbia smesso di ritenerli totalmente fuori di testa.

A volte ho raggiunto livelli di incomunicabilità estremi: quando conobbi la tedesca che adesso siede di fianco a me cercando di finire un test di italiano, ho dovuto penare per convicerla che è assolutamente normale che l'acqua di casa arrivi da sottoterra e non da un acquedotto. Non è avvelenata, non è tossica e comunque viene controllata ugualmente per sicurezza.

Durante le scorse vacanze pasquali trascorse con la di lei famiglia, c'è stata una discussione sul cibo “bio”, cioè biologico. E qui i cittadini hanno dato prova di sé, come al solito.

Premessa: qui il cibo “bio” lo trovate in tutti i supermercati e la categoria abbraccia una serie sterminata di prodotti, dai cetrioli al salame, dalle banane al muesli. Naturalmente costa molto di più di quello normale, perché è “bio”, talvolta anche il doppio.

Il cibo “bio” in casa nostra c'è finito qualche volta e da allora lo abbiamo bandito, in quanto per noi è una truffa bella e buona. Di quello che abbiamo comprato, abbiamo dovuto buttarne la metà perché presentava chiari segni di marcitudine. Durante la discussione, abbiamo esposto le nostre ragioni, solo che invece di ricevere i complimenti per la sagacia, ci è stato spiegato che è ovvio trovare la verdura che va a male, perché è “bio”. E allora ho capito che per i cittadini la verdura è come l'acqua: una cosa che si compra al supermercato. Un servizio.

Per chi è nato in mezzo a gente che dall'agricoltura traeva sostegno, è normale pensare alla coltivazione come ad un processo abbastanza delicato e fragile. Basta avere un giardino e qualche albero da frutto per capire che avere frutta buona in qualità decente non è cosa da lasciare alla natura. Se lasciate che sia la natura a prendersi cura del vostro albero, al momento di raccogliere vi troverete con ben poco in mano: caldo, freddo, troppa pioggia, poca pioggia, grandine, parassiti, malattie, animali sono solo una parte dei fattori naturali che cercheranno strenuamente di rovinare la vostra frutta. Perché l'agricoltura è un atto contro natura: la frutta non è fatta per sfamare l'uomo, ma dare una discendenza all'albero e l'uomo, con la tecnologia, interviene in questo processo e lo piega alle proprie necessità.

Per noi uomini moderni tutto questo ci è in gran parte oscuro. Andiamo ogni giorno al supermercato e compriamo tutta la verdura che ci piace, riempiamo le sporte della frutta preferita, senza che manchi mai. Non esistono più carestie, non esistono più condizioni meteo avverse. Una volta, quando grandinava, sentivo sempre esprimere un pensiero di compassione per i contadini; oggi, qui in città, non ci pensa nessuno.

Abbiamo perso di vista il legame esistente tra il riempire il sacchetto di zucchine e il lavoro dei campi. Avere cibo sempre disponibile è diventato il nuovo standard di vita e non ci si aspetta niente di meno. Ma se la disponibilità di cibo è diventata la norma, prima o poi arriverà qualcuno disposto a pagare di più per avere qualcosa di meglio. E si creerà un mercato dedicato a queste persone. Il mercato del “bio” è la risposta ad una richiesta formulata da chi non sa niente di agricoltura, o di natura, ma vuole avere cibo migliore.

I produttori “bio” fanno leva sull'immaginario del consumatore inurbato, con disponibilità economiche medio-alte, che non sa cosa sia la natura. Prima gli si fa credere che il cibo normale sia velenoso perché non “naturale”, poi gli si propone un'alternativa naturale. Si inizia a coltivare riducendo i costi e immettendo nel mercato cibo di qualità inferiore, cioè si adottano tecnologie agricole vecchie e meno costose, ma anche meno produttive. Questo cibo viene poi venduto ad un prezzo maggiorato, perché il prezzo maggiorato sta a significare qualità superiore, e la scarsa produttività non diventa un problema perché il mercato è relativamente piccolo. Invece di vendere molto a basso prezzo, si vende poco a prezzi alti.

Questo mercato si fonda sull'idea di far parte di una minoranza illuminata e migliore, che paga di più perché vuole di meglio. Se parlate con i normali utilizzatori di cibo “bio” avvertirete precisamente quest'idea di fare la scelta migliore, di nicchia, da avanguardia. Non si rendono conto di essere dei semplici consumatori come tutti gli altri, solo con maggiori disponibilità economiche; non si rendono contro di mangiare cibo di qualità scadente, ma sono convinti di mangiare sano.

Oltretutto, qui in Germania di coltivazioni ne vedete ben poche, a parte il luppolo in Baviera, ma i supermercati sono sempre colmi di frutta e verdura “bio”. Vuol dire che quel cibo arriva dal sud dell'Europa, dal nordafrica e dal sudamerica. Il che probabilmente spiega la bassa qualità: gli vendiamo gli scarti di produzione e glieli spacciamo per “bio”; per non dire del fatto che viaggiano per mezzo mondo prima di arrivare agli scaffali: davvero naturale.

È inutile spiegar loro che se dovessimo adottare sul serio l'agricoltura biologica come l'intendono loro, cioè in pratica se dovessimo coltivare come agli inizi del '900, loro si sognerebbero di andare ogni giorno al supermercato, non importa quale mese dell'anno, e trovare tutte le loro stuzzichevoli delicatezze. Ma in fondo perché farlo? C'è una nicchia di mercato che si occupa di queste persone e ci fa un sacco di soldi sopra, perché dovremmo convincerli del contrario? Lasciamoli mangiare le fragole biologiche così stanno buoni. È una delle cose buone del mercato: ruba ai fessi che si credono intelligenti e lascia in pace quelli che hanno un minimo di testa.

Non c'è problema

Oggi vi narrerò una storia, che potrete raccontare ai vostri figli quando vi parleranno di quanto siano efficienti i tedeschi. Tutto comincia quando a casa Angelo si decide di traslocare. Il primo di aprile si abbandonano, per la prima volta da quando si è in Germania, i quartieri da poveracci e si nidifica tra i signori altolocati (sì, come no?).

Per una serie di motivi, decidiamo di disdire il nostro contratto telefono/internet con Alice e di passare a Unitymedia, che offre il pacchetto tv/telefono/internet. I primi giorni di marzo firmiamo il contratto e ci viene detto che ci arriverà a giorni la Bestätigung, la conferma del contratto, con tutte le indicazioni utili. Fissiamo l'appuntamento con il tecnico per il 29 marzo.

Il 29 il tecnico arriva, attacca il modem alla presa, smanetta un po' su un netbook e se ne va lasciandoci un router wirless, un ricevitore digitale per la tv e la promessa che in 20 minuti tutto sarebbe stato operativo, telefono, internet e tutto. Naturalmente niente funziona dopo mezz'ora, né dopo un'ora. Poco male: il contratto è per il 1 aprile, mancano ancora 3 giorni e comunque, avendo traslocato il giorno prima e avendo una cucina intera da montare, abbiamo altro a cui pensare.

Il primo di aprile siamo ancora senza telefono e internet, così proviamo a chiamare il servizio a clienti, un numero a pagamento al quale l'operatore prima non sa che pesci pigliare e poi ci promette di richiamare non appena risolto il problema. Stiamo ancora aspettando la chiamata. Il giorno dopo, il 2 aprile, è Venerdì Santo, che in Germania è un giorno festivo: alle 7:30 del mattino partiamo alla volta del natio borgo selvaggio della Frau per passare la Pasqua. Lunedì 5 verso sera rincasiamo e ancora niente internet e telefono. Decidiamo di andare in un negozio Unitymedia il giorno seguente.

Ivi ci accoglie un signore di cui non riferirò l'etnia per non passare da razzista. Dopo aver spiegato tre volte qual era il nostro problema, il tipo ci dice di non poter far niente perché il contratto lo abbiamo firmato da un'altra parte. Lo guardo senza espressione e lui – per farmi un piacere – digita il mio nome sulla tastiera di un laptop e mi dice che, come volevasi dimostrare, lui non ha niente a nostro riguardo lì (lascio al lettore il giudizio su un'azienda che mi vende internet ma che mi vuol far credere di non avere i propri computer in rete). Allora il tipo mi da il numero del servizio clienti raggiungibile esclusivamente dalla rete di Unitymedia. Gli chiedo come posso chiamare quel numero se il mio problema è che non ho il telefono. Non mi risponde; mi guarda, ma non mi risponde. E io esco dal negozio senza salutare. Purtroppo Frau Angelo non fa lo stesso, a causa della sua congenita educazione nei confronti del prossimo.

Allora andiamo al Saturn dove abbiamo firmato il contratto. Naturalmente non ci troviamo lo stesso tipo (di cui non riferirò l'etnia nemmeno in questo caso) con cui abbiamo firmato il contratto, ma un altro. Un tedesco. Gli spieghiamo il problema, che non abbiamo ricevuto nessuna conferma del contratto e che non abbiamo internet e telefono. Lui chiama qualcuno. Dicendo che non ci è arrivata l'apparecchiatura. L'unica cosa che invece ci è arrivata. Parla e parla, mette giù. Ci dice che la conferma è unterwegs, che sta per arrivare. Sorride, come a dire “problema risolto”. Allora gli chiedo cosa è successo. Non mi risponde. Ripeto la domanda: cosa è successo? Non comprende, per lui non è successo niente. Parte lo spiegone: ho fatto un contratto per il 1 di aprile, è il 6 e ancora non ho internet. A questo punto il tedesco che è in lui non si trattiene più. Mi dice che non ho internet perché non è arrivata la conferma. Comincio a schiumare. Appunto! Perché non è arrivata la conferma? Ho firmato un contratto per il primo di aprile.

Messo alle strette, fa quello che tutti i tedeschi maschi sul lavoro fanno quando sono messi alle strette: racconta la prima balla che gli passa per la testa. Mi dice la data d'inizio del contratto è “indicativa”. Purtroppo non ho avuto la prontezza di spirito di farmi indicare col dito dove nel contratto che avevo con me ci sia scritta una cosa del genere (a casa ho controllato, c'è scritto che la data in cui il tecnico viene a casa è indicativa: vuol dire che al momento della firma chiedi quando preferisci che venga e poi ti metti d'accordo giorno più giorno meno col tecnico). Invece gli ho dato corda, dicendogli che va bene, la data è indicativa, ma allora dovete dirlo quando fate il contratto, così uno si regola.

A questo punto fa la seconda cosa che ogni tedesco sul lavoro fa: picchietta col dito sul contratto e mi dice “eh ma qui non c'è mica scritto il mio nome!” intendendo che non è stato lui a farmi il contratto e che quindi io non posso chiedergli alcunché. E sorride, convinto che questo mi dovrebbe mettere a tacere. Sfortunatamente per lui, se c'è una cosa che non sopporto sul lavoro è la gente che, di fronte ad un problema, dice “non c'è il mio nome, non sono stato io”. Io gli faccio notare l'inanità di tale argomentazione, ma lui insiste dicendo che “non è stato lui”. Qui commetto un errore, perché non mi appunto il nome del personaggio e me ne vado senza salutare.

Il giorno dopo ancora nessuna conferma; aspettiamo un giorno (giovedì 8 aprile) e la Frau chiama ancora il numero a pagamento, dove non sanno cavare un ragno dal buco e così le passano un superiore. Il quale per prima cosa le dice che tutto quello che il bellimbusto al Saturn ci ha detto erano sciocchezze (l'avevo sospettato) e che effettivamente c'è qualcosa che non va. Ci dice di controllare se almeno la tv va e di richiamare il giorno seguente. La tv va, anche perché a noi della tv non interessa né poco né punto, ci interessa avere il telefono e internet.

Venerdì 9 la Frau viene contattata da Unitymedia, la quale dice che probabilmente c'è un problema al modem e che manderanno il tecnico lunedì 12. Lo stesso giorno, ci arriva una lettera datata 2 aprile, con il timbro postale dell'8 aprile: è la conferma che contratto per la tv è partito il 7 aprile. A questo punto ancora non sappiamo quale sia il nostro numero di telefono, non abbiamo il telefono e non abbiamo internet. In compenso possiamo guardare la tv, cosa che abbiamo fatto insieme sì e no tre volte da quando ci conosciamo.

Lunedì 12 non vado al lavoro, perché alle nove arriva il tecnico. Nove e un quarto, nove e mezza, nove e 45, dieci, dieci e un quarto... il telefono fisso suona. Miracolo! San Gennaro! E chi sarà? E' il tecnico. Che dice qualcosa. Ora, dovete sapere che in questo Paese ad alto tasso di immigrazione, gli è riuscito tutto bene, tranne di insegnare agli immigrati di ottava generazione a parlare tedesco vero e proprio. Inoltre, non conoscono la differenza tra tedesco standard e dialetto come in Italia, ma la applicano costantemente. Sono convinti di parlare tedesco ed invece parlano la variante locale. Quindi l'immigrato di ottava generazione parla una lingua a metà tra la sua di origine e la variante locale del tedesco di dove vive. Per un tedesco questo non è un problema, per lui è come sentire parlare tedesco con accento straniero, per me invece è una tragedia perché non capisco mai quello che vogliono. Lo so che è colpa mia eh, e lo so di parlare tedesco peggio di loro, ma almeno io mi sforzo di pronunciare le parole dall'inizio alla fine. Insomma, il tecnico che doveva essere a casa mia un'ora e quarto prima mi dice è tutto a posto, bastava che quelli di Unitymedia premessero il bottone dell'energia solare che è invicibile e tutto è sistemato.

La pressione sanguigna mi sale così tanto che inizio a piangere sangue, la mente mi si obnubila, dimentico tutto il tedesco che ho imparato e comprendo che in questa lingua non esiste la parola “vaffanculo”. Attacco e corro al lavoro, dove arrivo con soltanto due ore e mezza di ritardo.

Aggiungeteci che naturalmente il mio Ubuntu 9.04, oltre a non leggere la scheda wireless, non si connette automaticamente via cavo al router – come fa di solito con qualunque altra rete – e che ho cercato i forum di mezza Germania per capire come fare e che invece la soluzione era banalissima ed eccomi qua, al 14 di aprile, a riprendere il postaggio.

Ah, ma non fraintendetemi, non è che in Germania le cose non funzionino mai. Il problema è quando succede qualcosa: cioè, io posso capire che qualcosa vada storto, succede; quello che non accetto è che quando ti chiedo di risolvere il problema prima mi dici che non c'è nessun problema, poi che non è tua responsabilità e alla fine insinui che io non so attaccare un router ad un modem ed un modem alla presa; soprattutto quando è evidente che bastava che qualcuno, invece di lustrare la spocchia, premesse tre bottoni in croce.

Tra l'altro, ad oggi non si sono degnati di mandarci un pezzo di carta per dirci qual è il nostro numero di telefono e tre dati in croce sulla connessione internet, tanto che per impostare il router sono andato a caso.

Sinestesie

Uno dei fatti della vita che ho compreso solo in età adulta era la critica alle festività consumistiche e alla loro retorica dei buoni sentimenti. In passato non la capivo perché, essendo nato e cresciuto in terra cattolica, per me le festività erano principalmente un duro periodo dedicato all'obbligatorietà dell'azione religiosa. Ora, invece, che vivo in Germania e frequento famiglie completamente a-religiose, le comprendo. Qui il Natale e la Pasqua sono davvero un periodo melenso e sdolcinato, retorico e vagamente repellente. Personalmente ho impiegato molto tempo e molti sforzi per arrivare a tollerare i festeggiamenti germanici (ma non sono ancora riuscito a farmele piacere, né mai tenterò), ma non perché siano solo delle vuote celebrazioni del consumismo neoliberista che sta distruggendo i valori (quella è la parte buona), ma per colpa della mia educazione.

Un bambino nordico cresce sapendo che un giorno all'anno, per qualche inspiegabile motivo, ci si fanno i regali e a lui spetta, senza motivo, quello più bello. Io sono cresciuto sapendo che per quattro settimane il parrocco e i catechisti avrebbero preteso da me la conoscenza di mezzo Vangelo e facevano di tutto per insegnarci a sentirci in colpa per non essere nati in una stalla, riscaldati dai peti di una mucca palestinese. I regali non si dovevano nemmeno nominare e ci dovevamo vergognare anche del pensiero. Quattro settimane per prepararsi, alla fine delle quali non c'era nulla da festeggiare ma, anzi, bisognava andare a confessare i propri peccati, tutti quegli orribili misfatti che i bambini delle elementari compiono quotidianamente.

La sera della vigilia, mentre i bambini nordici scartavano i pacchi, noi si doveva stare svegli per andare alla messa di mezzanotte, messa cantata e quindi ancor più insostenibile. E il giorno dopo c'era la messa della mattina, cantata anche questa, mentre i bambini nordici giocavano coi loro nuovi giocattoli. Per questo, adesso, devo litigare ogni anno per far comprendere ai nordici che Natale è il 25 dicembre, non il 24 e che il Natale è una festa religiosa e non la festa della famiglia che si scambia i regali.

Poi c'è il carnevale, che per i tedeschi esiste senza un perché e finisce un martedì del calendario a caso con una bella festa simpaticissima e piena di verve come solo le feste tedesche sanno essere. Per me invece finiva il mercoledì con un prete che ti cosparge il capo di cenere. Così, tanto per ricordarti che finirai un metro e mezzo sottoterra mangiato dai vermi. A 10 anni è tempo che ti prepari all'idea.

Poi c'è la Pasqua. Per i tedeschi, la Pasqua è una festa priva di motivo in cui la famiglia si scambia i regali. Per noi era la festa più importante della cristianità, ma non capivamo perché, visto che i regali si ricevevano a Natale. Quindi serviva una doppia razione di catechismo per insegnarci che il Natale non contava poi così tanto (avrei giurato che il dicembre precedente avessero detto altro, però) e che la Pasqua era la vera festa. E via di nuovo, Vangelo e confessioni, confessioni e peccati. Ma tutto amplificato, perché qui si parlava di Gesù ucciso dagli uomini e quegli uomini eravamo noi, noi bambini avevamo ucciso Gesù, dannati piccoli assassini. Ed infatti, mentre i bambini nordici ricevono doni, noi aspettavamo rassegnati la settimana intera di messe cantate. Giovedì, venerdì (due volte, alle 15, quando è morto e alla sera, ripercorrendo tutta la Passione), sabato la veglia e domenica mattina. Ci sarebbe stato anche il lunedì, ma non eravamo così tanto devoti.

Adesso che sono grande, invece di imporre ai miei figli questa trafila, ogni anno devo spiegare cosa sia la Pasqua, che Gesù è morto e risorto, che resurrezione vuol dire che il corpo intero si è rialzato, non solo l'anima, eccetera eccetera.

Nelle feste non doveva esserci nessun divertimento e nessun autocompiacimento. Per noi erano solo la tortura delle infinite messe cantate, dell'incenso che brucia le narici, delle catechiste che controllano come stai seduto e come stai in piedi. Era una dura disciplina che ci formava, anche se tutti inevitabilmente prima o poi lasciavamo perdere appena divenuti un po' più grandi: la vera educazione non è quella che si perpetua all'infinito ma quella che ti condiziona per sempre.

Immaginate dunque come possa sentirmi in mezzo a gente che ostenta buoni sentimenti, salamelecchi e smielosità varie. Per esempio, almeno nella zona da cui provine la mia Frau, la domenica di Pasqua fanno un gioco che non so neanche come descrivere. Ognuno prepara dei piccoli regali e dolcetti per gli altri e li nasconde (per modo di dire) in giardino e poi tutti devono trovare i loro. Esclusi i casi in cui siano presenti bambini, la scenetta è disgustosa: vedere persone adulte che fanno finta di stupirsi per aver trovato un sacchetto di cioccolatini è francamente impressionante. Capite che quando sento parlare di efficienza tedesca, di asprezza del carattere, di educazione severe mi vien da ridere...

E mi vien voglia di tornare a quand'ero bambino, quando la Pasqua era un Dio tumefatto e sanguinante, torturato fino allo sfinimento, tradito dagli amici, abbandonato da suo Padre che poi era Lui, quindi un Dio abbandonato da sé stesso; sua madre che vede il centurione infilzarlo con una lancia, le donne che prendono il cadavere e lo depongono in una tomba che non era nemmeno la sua; le infinite messe cantate, l'incenso che satura l'aria; rimpiango persino quel prete che una volta venne nella nostra parrocchia a celebrare la messa, che pareva un personaggio uscito dal Nome della Rosa e tuonava contro il diavolo e ci metteva in guardia dai piaceri del mondo terreno.

E niente, per me Pasqua è la Missa Brevis di Palestrina che profuma di incenso. E senza bisogno di LSD.