Carrellata semiseria di ricordi di poco conto sui giovani precari, scritta da un giovane quasi precario. Parte prima.
Preludio. In Italia il lavoro – latu sensu – non è l'attività attraverso cui l'uomo ottiene dei beni di vario genere, ma una corollario della legge morale che serve a definire socialmente il valore di un individuo, secondo il principio “più si lavora, più ci si eleva moralmente”.
Ciò detto, ospitando l'Italia una società complessa, per ottenere il pane quotidiano l'individuo non si limita a cacciare e piantare il grano a primavera, ma svolge un'attività altamente specifica, in cambio della quale riceve del denaro, in cambio del quale riceve beni.
Orbene, sappiamo tutti che da poco meno di 20 anni esiste il fenomeno del precariato, che colpisce in particolare le fasce più giovani della popolazione lavorativa, e molto spesso le fasce acculturate della medesima. A leggere la stampa informata, l'unica reazione che si sente è il solito piagnisteo di qualche gruppuscolo intento a chiedere al governo di fare qualcosa. Qualcosa che puntualmente il governo non fa, perché i governi più che tassare e fare guerra non possono. E allora si passa al pianto: “sono senza lavoro perché il governo, gli imprenditori, i comunisti, il turbocapitalismo, la massoneria, la Chiesa, la Cina, gli alieni...” che, tradotto, diventa “sono senza lavoro, ma non per causa mia, perché è sempre colpa degli altri.”
Se è vero che il mondo lì fuori non è il massimo, è altrettanto vero che il mondo lì fuori non è mai stato il massimo. Quindi proviamo per una volta a parlarci tra di noi seriamente. Tanto qui non ci legge nessuno e possiamo permetterci di dire quello che vogliamo. Aggiungo solamente che da tutto quello che dico io non mi tiro fuori: il curatore di questo blog è uno come tanti, con una vita come tanti e senza particolari motivi per cui debba ritenersi al di sopra o al di fuori del gruppo sociale cui appartiente. Io vi dico la mia, vedete voi cosa farne.
Come ho già avuto modo di scrivere, nel nostro Paese si è deciso che l'istruzione doveva diventare di massa, cioè non doveva essere accessibile a tutti, ma tutti dovevano accedervi. Per qualche strano motivo, si è deciso che più gente doveva avere la laurea (in nome dell'onnipresente e insulso paragone con l'estero magico e meraviglioso) ed allo scopo si sono scelte le facoltà umanistiche. Quando dico scelte, intendo proprio una volontà attiva: nel corso degli anni si sono rimossi tutti i filtri che impedissero ad una persona qualunque di ottenere una laurea umanistica, a prescindere e dalle sue conoscenze pregresse e dalle conoscenze acquisite. Chiunque può iscriversi ad una facoltà umanistica senza sapere nulla ed uscirne dopo un tempo x senza sapere nulla. Non è un iperbole. È la realtà dei fatti. Ed è il motivo per cui il sentire comune percepisce le facoltà umanistiche come “facili”, luoghi dove si parla tanto e non si conclude nulla, dove si fa “filosofia”, cioè “ci si parla addosso” e via dicendo.
Il fatto è che le discipline umanistiche, di per sé, non sono facili né alla portata di tutti. Non siamo più nel 1869, quando un giovanotto un po' tocco poteva ricevere la cattedra di letteratura greca prima della laurea per aver scritto degli sgangherati pensierini sull'antichità. Sebbene non appartengano alle scienze esatte, hanno fatto propri i criteri di ricerca e studio tipici di quelle materie, grazie ai quali hanno raggiunto dei gradi di serietà e specializzazione sconosciuti fino a 50 anni fa. Quindi, prese per quelle che sono, le facoltà umanistiche hanno una loro dignità e un posto di rispetto tra gli studi accademici. Per loro stessa natura, però, non sono appetibili che ad una ristretta fascia di popolazione. Di gente che vuole studiare davvero filosofia in maniera seria non ne trovate molta in giro, ed è normale che sia così. Come pure certe facoltà, come Scienze della Comunicazione, avrebbero tutto il senso di esistere in un mondo in cui la comunicazione è una parte consistente dell'economia.
Il problema è che si è deciso che in queste facoltà dovevano entrarci tutti e quindi corsi che sarebbero destinati a pochi ma buoni si sono trasformati in una corte dei miracoli dove potete trovare di tutto. Ad esempio la facoltà di Lettere e Filosofia era destinata a chi ha fatto il liceo, possibilmente classico, perché era strutturata in modo da non dover fornire le conoscenze di base per dedicarsi soltanto all'approfondimento. Studiare filologia dantesca o ermeneutica non è un diritto sancito dalla Costituzione, quindi si procedeva a bloccare in partenza quelli senza le conoscenze pregresse adatte. Quando si sono aperte le iscrizioni a tutti, un fiume di persone che non aveva alcuna idea del proprio destino ha varcato la soglia di Lettere e si è trasformato in carne da cannone. Nei corsi più frequentati (quelli obbligatori) i pochi con una formazione classica come me assistevano quotidianamente al massacro di questi poveri giovani mandati contro un nemico più forte, motivato ed armato: la cultura. Per lo più questi disgraziati non capivano l'argomento della lezione – nel senso: non capivano quale fosse l'argomento della lezione; altri non capivano la terminologia usata; altri non capivano i libri da leggere. Ricordo ancora il mio primo semestre, corso di linguistica generale: tradizionalmente destinato ai pochissimi studenti di antichistica, divenne obbligatorio per tutti i partecipanti al concorso di Lettere e Conservazione dei Beni Culturali. Mi sentivo come un soldato a Verdun nel 1916: gente che non studiava italiano dai tempi delle medie costretta a prendere appunti sull'etrusco! Potevo leggere la disperazione nei loro occhi, ma non potevo far nulla per aiutarli. Li vedevo cadere ad uno ad uno sotto i colpi dell'apofonia e della tripartizione della società indoeuropea. Forse qualcuno ha ancora gli incubi pensando al wanaka.
Non tema comunque il lettore. La disperazione di costoro non li ha fatti certo desistere e si è trasformata in rivendicazione di diritti. Esame di latino, obbligatorio per tutti. Il latino a Lettere è come il numero di Avogadro in chimica: è la base minima per poter comprendere tutto il resto. A livello accademico, italiano e latino sono legati così strettametne da diventare inseparabili; non si può parlare di italiano senza sapere latino. Il 99 percento di coloro che tentavano di passare il turno non aveva mai fatto latino in vita sua. Ma ciò non costituiva un problema, perché pretendevano di passare l'esame di latino: siccome loro non lo sapevano, era ingiusto che si chiedesse loro di saperlo e rivendicavano il diritto alla promozione. Il principio era che lo studente passa un esame per il fatto stesso di essere inadatto a passare l'esame. Guardate che non mi invento niente.
Considerando però che l'ordine supremo è quello di promuovere, si sarebbe di fronte ad un bel dilemma. Come può un professore promuovere uno studente che non sa nulla? Difficile, a meno che...
non applichiamo il concetto di lavoro che abbiamo premesso all'inizio al mondo delle facoltà umanistiche. In base alla concezione moralistica di lavoro, lo studente viene giudicato per la quantità di fatica patita sui libri e non per il risultato prodotto. È il sempreverde “com'è bravo, studia 12 ore al giorno, si merita 30 e lode”. In un sistema di valutazione razionale, si considera il risultato, cioè quanto lo studente ha imparato, e ci si disinteressa di quanto ci ha messo per impararlo. Eventualmente, a parità di risultato si ammira chi necessita di un carico di lavoro minore, perché più intelligente o più motivato. Non da noi. Da noi più fatica fai più bravo sei, a prescindere da quanto hai imparato. Si premia l'inefficienza.
È chiaro che in questo sistema la carne da cannone di cui sopra è avvantaggiata al momento della valutazione, perché farà una fatica enorme per passare un esame, rispetto a chi invece ha già delle basi e quindi deve solo approfondire alcuni aspetti. Alla fine chi produce un risultato migliore a costi inferiori viene valutato peggio di chi produce un risultato scarso o nullo a costi elevatissimi. E ancora, guardate che non mi invento niente. Tornando all'esempio dell'esame di latino, si è creato ufficialmente il doppio metro di valutazione: uno per chi non lo sa e uno per chi lo sa. In cosa consiste? Semplicemente, chi non ha mai fatto latino porta metà del programma, gli viene richiesta una conoscenza grammaticale da IV ginnasio e una conoscenza letteraria da I liceo. Chi invece conosce il latino e magari studia antichistica, fa lo stesso esame con lo stesso professore, però viene torchiato a dovere. Va da sé che chi viene da un istituto tecnico farà una fatica immane e non saprà niente, mentre chi viene dal classico farà meno fatica e saprà di più. Ma sul libretto, alla voce “Letteratura Latina”, lo studente che sa meno ha un voto uguale o superiore a quello che sa di più.
In aggiunta a tutto questo, alcune facoltà sono diventate il ricettacolo di chi non vuol far fatica. L'esempio abusato è quello di Scienze della Comunicazione. In ulteriore aggiunta, si sono inventati corsi di laurea apposta per laureare quante più persone possibile.
A questo punto, mentre di certo non si può negare che il mondo è cattivo, gli imprenditori sono cattivi, le leggi sul lavoro sono cattive, è anche vero che un numero enorme di persone sono state spinte a laurearsi a qualsiasi costo andando ad inflazionare una nicchia formativa naturalmente destinata a poche persone. Di conseguenza, chi ha studiato sul serio si è trovato un pezzo di carta in mano, reso inutilizzabile dal numero esorbitante di colleghi non preparati; mentre alla maggioranza degli studenti sono state instillate nella mente aspettative lavorative che non hanno riscontro nella realtà. È inevitabile quindi che al momento di trovare un lavoro, entrambe le categorie si trovino con esigue possibilità di successo e finiscano a fare lavori non qualificati.
Questo non si dice ai cortei contro il governo o alle messe in onore di San Precario, ma è una parte rilevante del problema ed è anche la parte più dolorosa del problema, perché non è bello scoprire a quasi trent'anni che nessuno li fuori ti vuole, se non per scopare marciapiedi e rispondere al telefono.
(continua)