Fascioforming

Da quando qualcuno ha avuto la rivoluzionaria idea di concepire lo Stato come un distributore di servizi e un redistributore di ricchezza, il mondo occidentale ha intrapreso senza indugio quella strada. A fare scuola sono stati Mussolini, Roosevelt, Hitler e Stalin e non ci voleva un genio per capire dove saremmo andati a finire.

In Italia lo Stato dalla culla alla tomba opera attraverso canali informali o apertamente illegali, attraverso la distribuzione di favori, appalti, posti di lavoro e lasciando alla famiglia una grossa parte del lavoro. Tutte cose che sappiamo.

Nel nord Europa invece lo Stato fa le stesse cose, ma sotto il mantello della legalità e delle buone apparenze. Quello che da noi succede nelle zone d'ombra o nella illegalità, lì è sancito ufficialmente. In più, lo Stato agisce anche tramite l'assistenzialismo mascherato, ovverosia creando lavori e figure professionali dal niente. Costoro hanno sicuramente un aspetto più elegante e profumato del falso invalido che vince il concorso truccato per entrare alle Poste, ma il principio è lo stesso.

Conosco persone che lavorano come dirigenti in tutta una serie di mercati artificiali dai nomi esotici come “cooperazione internazionale” o “sostegno al microcredito”; conosco ingegneri che vivono studiando, pagati dalle università, i possibili effetti idrogeologici del riscaldamento globale. Conosco gente che viene pagata per lavorare in associazioni antimperialiste e anticapitaliste. Senza contare gli innumerevoli Ph.D. di cui si sente parlare anche nei giornali italiani. E non dimentichiamo interi settori, come quello automobilistico, tenuti in vita ben oltre l'accanimento terapeutico.

Tutti lavori che non esisterebbero se non ci fosse lo Stato a crearli. Poi però bisogna anche pagarli, in qualche modo. E chi paga? Gli altri, quelli che lavorano nel mercato, meglio noto come “mondo reale”. Ma l'assistenzialismo è una droga: provoca dipendenza ed assuefazione, così bisogna averne sempre e sempre di più.

La situazione ormai sta andando fuori controllo e bisogna pagare, qualcuno deve pagare. Sempre quelli che lavorano nel mondo reale. Parliamo della Germania. Contrariamente a quanto si legge sui giornali, anche nel nord Europa c'è gente che lavora senza essere dirigente; persone e famiglie che hanno lavori normali e stipendi normali. Per queste persone non c'è nessuna assistenza particolare. Un lavoro normalmente pagato mette il lavoratore nella fascia di reddito appena superiore al limite minimo per non essere considerato legalmente povero e ciò preclude l'accesso agli aiuti fiscali e assistenziali. In questo modo una famiglia con due redditi si trova ad affrontare la tassazione completa, a dover pagare l'affitto, a dover pagare tutte le imposte dirette ed indirette, le bollette e così via.

Dunque, mentre una famiglia normale deve stare attenta a come vive, un numero sempre crescente di disoccupati mantiene lo stesso tenore di vita di quella famiglia senza lavorare, perché lo Stato fornisce un sussidio di disoccupazione che non è altissimo, ma viene integrato fornendo una serie di servizi ritenuti fondamentali per la dignità umana, come l'affitto, i mobili, le bollette e la televisione digitale (eh già: Berlusconi avrà anche finanziato i decoder con i soldi pubblici, ma in Germania hanno dichiarato la tv digitale un bene di primaria importanza e hanno pagato la televisione nuova a un sacco di gente con i soldi pubblici). Fino a ieri 27 settembre il sussidio di disoccupazione copriva anche sigarette ed alcol.

Dall'esterno potrebbe sembrare una semplice questione di principio, ma nel mondo reale non è così. Nel mondo reale, chi vive di sussidi entra in diretta competizione con la famiglia normale ed è avvantaggiato sotto molti aspetti. Per esempio, se non siete ricchi e cercate un appartamento in affitto sarà difficilissimo trovarne uno decente, perché i padroni di casa preferiscono affittare a chi vive di assistenzalismo: in quel caso paga lo Stato e loro sono sicuri di avere ogni mese i soldi. Il lavoratore normale invece porta con sé un rischio che, per quanto ridotto, è sempre maggiore dell'assenza di rischio garantita dallo Stato.

Se per caso siete una giovane coppia che ha deciso di fare le cose per bene, di progettare seriamente il futuro, di crearsi una certa sicurezza economica e fare figli al momento che riterrete opportuno, non riceverete nessun aiuto dallo Stato, dovrete arrangiarvi a trovare un asilo nido, la mamma dovrà sperare che il datore di lavoro la riprenda dopo la maternità e tutte quelle che cose che secondo i giornali italiani non succedono in Germania. Se invece non siete capaci di far niente, non avete voglia di lavorare, passate il vostro tempo libero a ubriacarvi e fate figli perché troppo ignoranti per sapere come evitarli, allora lo Stato vi aiuta in tutti i modi, fornendovi soldi, vitto, alloggio, assistenza sanitaria, asili nido e tutto il resto.

L'assistenza sanitaria è quasi al capolinea. Per ogni persona che paga, ce ne sono sette che ricevono le prestazioni gratuitamente. Vuol dire che un lavoratore che paga l'assicurazione sanitaria regolarmente, quell'unica volta che va dal dottore rischia seriamente di trovare chiuso perché il dottore lavora solo entro un certo budget mensile di spesa rimborsato dall'assicurazione, oppure trova il dottore, paga ancora 10 euro e si sente dire che non ha niente. Contemporaneamente ci sono 7 persone che invece dal medico ci vanno chissà quante volte al mese, tanto per loro paga quel lavoratore.

Qualcuno penserà che comunque è giusto, perché i ricchi partecipano alle spese per i poveri. Ovviamente no. I ricchi hanno le loro assicurazioni sanitarie che funzionano in maniera diversa, dove ognuno paga per sé. In quella che viene creduta la patria dell'assistenza sociale, chi può permetterselo ha una sanità separata dal resto della popolazione, esattamente come in Italia.

Ci poi sono un sacco di piccole spese che però sommate a fine anno pesano. Per dire, il canone TV costa 215 euro all'anno, in più c'è una gabella sul cavo della TV, che ne costa 216. Fanno 430 euro all'anno che si è obbligati a pagare al solo scopo di dare lo stipendio ad un baraccone che nessuno vuole, perché in Germania come in Italia come ovunque nessuno pagherebbe un soldo di cacio per tenere in piedi le tv di Stato. Ma ovviamente solo se lavorate, perché se non avete un lavoro non solo lo Stato non vi fa pagare queste gabelle, ma addirittura si è premurato di fornirvi un apparecchio per il digitale terrestre al momento del cambio.

Da queste parti c'è l'idea che gli studenti non debbano pagare niente o, al massimo, una cifra simbolica. Teatri, cinema, mezzi pubblici devono essere gratuiti per gli studenti. Un universitario che già si prende i soldi dal governo, ha l'alloggio a prezzi ridicoli (quando non gratis) può andare in giro 365 giorni all'anno sui mezzi a spese dei contribuenti, mentre un coetaneo che lavora con uno stipendio di ingresso può facilmente arrivare a pagare più di 1000 euro all'anno di mezzi. Mentre in Italia il passaggio da studente a lavoratore di solito significa un miglioramento del tenore di vita, qui in Germania spesso è il contrario: lavorare permette uno stile di vita inferiore che studiare, tranne nel caso di posti di lavoro statali o posti di lavoro altamente retribuiti, che però significano 60/70 ore di lavoro alla settimana, oppure trasferte 6 giorni su 7.

Le pensioni sono ormai un sogno. Il lavoratore di oggi deve pagare le pensioni che vengono erogate oggi, mentre deve pagare anche la propria pensione di domani (sempre che sia abbastanza accorto da farlo, e che sappia rinunciare a qualcosa da giovane per non morire di fame da vecchio).

È evidente che non si tratta di una guerra tra poveri, se per poveri intendiamo quelli realmente poveri. È una guerra tra una parte di popolazione che prende i soldi e l'altra che deve fornire i soldi. È una guerra di attrito non dichiarata, ma soprattutto una guerra in cui i soldati non sanno di essere in prima linea. L'unica cosa che sanno è che la qualità della vita scende, lentamente ma inesorabilmente. Ma senza una visione d'insieme, non sanno cosa pensare.

In questo quadro non si è parlato di un fattore: l'immigrazione. Quando i primi sintomi di crisi d'astinenza indotta dall'assistenzialismo si sono fatti sentire, i pianificatori sociali – anziché interpretarli come tali – hanno preferito assecondarli ed hanno pensato “ma perché non chiamiamo un po' di negri a lavorare per noi, che tanto quelli campano con un piatto di riso al giorno e ci mantengono i nostri pensionati e il nostro ospedale?” Solo che non è andata proprio così, perché gli immigrati, arrivati in Paesi drogati di assistenzialismo, ci sono caduti anche loro.

Come i disoccupati italiani vanno in Europa a sfruttare i Ph.D., allo stesso modo gli immigrati sfruttano i sussidi di disoccupazione e vivono nelle pieghe del sistema. E perché non dovrebbero? È legale, non l'hanno nemmeno chiesto, c'è e si prende. Qualcuno si fa forse scrupoli a prendere un dottorato in Germania pagato dal contribuente tedesco perché in Italia non trova lavoro? No, mica è illegale... lo offrono loro, non lo pretende il laureato. In Germania gli immigrati si sono integrati perfettamente, campando alle spalle del contribuente al pari di milioni di tedeschi.

La coperta però si sta accorciando e il contribuente comincia a sentire fresco ai piedi. E se la prende con gli immigrati che vivono di sussidi e non lavorano. Perché se la prende con loro? Perché è razzista? No. Perché è cattivo? No. Non per questo, ma per una serie di ragioni.

Primo, l'immigrato è diverso alla vista, non si confonde, soprattutto se la pelle è di tonalità scura. Secondo, vivere con il sussidio è una forma diretta e facilmente identificabile di assistenzialismo. Terzo, i media si chiedono sempre se sia giusto o meno alzare o abbassare i sussidi ai disoccupati e agli immigrati.

Invece un tedesco che di lavoro fa il manager per un'azienda automobilistica non viene considerato come una persona che percepisce uno dei più alti sussidi di disoccupazione esistenti, ma come una persona realizzata da ammirare e da invidiare. Inoltre, i media parlano degli incentivi statali al settore automobilistico come di un aiuto all'economia e al benessere dei lavoratori.

Mentre concettualmente non c'è differenza tra il disoccupato turco che vive di sussidi ed il dirigente tedesco che vive di sovvenzioni, sul piano della percezione l'immigrato diventa la causa di tutti i problemi, mentre il dirigente non viene nemmeno considerato. Tanto è vero che un politico tedesco, cioè chi per antonomasia vive alle spalle dei contribuenti e non crea nulla di produttivo per il Paese, può scrivere un libro in cui accusa gli immigrati di vivere alle spalle dei contribuenti e di non creare nulla di produttivo per il Paese e nessuno gli ride in faccia. È come se Riina scrivesse un libro in cui accusa Provenzano di essere mafioso: non che sia falso, per carità, ma insomma...

Credendo di poter salvare il salvabile, vogliono togliere a quelli che considerano più deboli per non rimanere senza. Credono che gli immigrati siano la causa dei problemi, anziché una delle conseguenze; pensano di essere diversi solo perché hanno la macchina nuova comprata a rate invece di una vecchia comprata in contanti; appena non sono loro i beneficiari dei sussidi, scoprono quanto ingiusti ed antieconomici siano. E qualche partito di destra prende i loro voti.

Sta succedendo esattamente quello che è successo con la Lega in Italia: a parole ce l'avevano con Roma ladrona, con i terroni, con i musulmani; nei fatti, l'unica cosa che hanno fatto è stata mettere le mani sui soldi del contribuente e cercare di arraffarne quanti più possibile. Probabilmente è la fine cui è destinata l'ondata xenofoba e razzista che sta travolgendo l'Europa: suggere alla mammella pubblica e fare di tutto perché altri non facciano lo stesso. E intanto i quotidiani hanno materia da isteria un tanto al chilo.

Mafia II, la recensione. Una specie. [spoiler!]


Otto anni fa Illusion Softworks, software house indipendente ceca creò un videogioco dall'iconico titolo – Mafia – una pietra miliare dell'industria. Nel 2007 viene annunciato il seguito. Nel 2008 Illusion Softworks viene inglobata da Take-Two Interactive, un colosso del settore, le viene cambiato nome (diventa 2K Czech) e inizia a rimandare l'uscita del gioco fino ad agosto 2010.

Quella che segue è la storia di come il marketing sia in grado rovinare anche le cose meglio riuscite. Ci saranno spoiler grossi così:



In tutti i forum e riviste del settore si legge che il titolo sì vabbè, però Gran Theft Auto è molto meglio. Questo significa che in molti si aspettavano un gioco tipo GTA. E perché se lo aspettavano? Perché il marketing ha evidentemente voluto così, cercando di far soldi sfruttando un franchise conosciuto al grande pubblico.

Negli ultimi due anni gli sviluppatori si affannavano ogni tre per due a dire che Mafia II non è GTA, segno che probabilmente sapevano che la strategia di marketing era invece proprio quella di attirare i milioni di giocatori di GTA. Si capisce che lo spirito era di creare un gioco dalle forti assonanze con film come Bronx e Goodfellas. Negli intenti doveva essere un titolo fortemente story driven.

Solo che non ci riesce, perché la storia manca di spessore, è troppo breve e tutto succede troppo in fretta. I personaggi sono monocromatici e la trama è solo una successione di luoghi comuni tenuti insieme con lo scotch, talvolta al limite del grottesco. In trasparenza si capisce che tutto ciò è dovuto al fatto che mancano pezzi eliminati a posteriori, manca l'evoluzione e quindi mancano tutti i passaggi logici, prima ancora che narrativi, che fanno arrivare dal punto A al punto B. Ma partiamo dall'inizio.

La storia comincia con una lunga cutscene melodrammatica in cui il protagonista, Vito Scaletta, racconta la storia strappalacrime della famiglia di emigranti siciliani che arriva a New York Empire Bay in cerca di fortuna. Nel giro di 30 secondi ci vengono scodellate l'infanzia e la giovinezza di Vito, in un crescendo di sentimentalismo da edicola della stazione, il povero disperato giuovane italiano che si dedica al furto per avere una vita migliore. Tutto d'un tratto Vito viene arrestato (siamo sempre nella cutscene iniziale) e siccome la Merica vuole invadere la Sicilia (non esiste l'Italia in questo gioco, esiste solo la Sicilia), Vito viene arruolato a forza e mandato in una sorta di reparto speciale operazioni segrete Tier 1 Black Ops.

A questo punto ci si trova a giocare Call of Duty in Sicilia, si sparacchia ad un po' di soldati italiani che occupano la piazza del paese, finché un colpo di artiglieria non vi lascia mezzo morto. Il concept ha senso. Dovendo fare un gioco di sparatorie, si sceglie un veterano di guerra che ha imparato a maneggiare le armi. In più, il tutorial diventa parte integrante del gioco ma, non coinvolgendo la trama vera e propria, non sembra quasi un tutorial.

Solo che tutto va a remengo perché fa la sua truzza comparsa il supereroe che ci accompagnerà per tutto il resto del videogioco: il mafioso che, con il potere della parola, riesce a cambiare il corso della storia. Nel caso particolare, mentre la Merica e la Sicilia stanno combattendo la seconda guerra mondiale, il mafioso dai superpoteri si mette di traverso alle pallottole e, con un megafono stile sindacalista FIOM, dice di smettere e così la seconda guerra mondiale in Sicilia finisce perché il potentissimo Salvatore 'u pisciacurtu ha detto di smettere.

Vito è ferito gravemente e lo rispediscono in Merica per un po', ma poi dovrebbe ripartire per il fronte. Appena tornato (da sottolineare che torna a casa perché ferito, ma non ha un graffio, cammina normalmente, neanche un cerotto a X sulla tempia, niente di niente), prima di tutto va al bar con il suo vecchio amico Joe Barbaro, il quale confessa di essere in contatto con la mafia. Vito pare non capire, ma Joe gli dice che se entrambi riescono ad entrare nella mafia otterranno anche loro i superpoteri, proprio come ha visto fare al supereroe siciliano. E in un attacco di sboronaggine acuta va a fare una telefonata, con la quale convince il Pentagono che, nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, un soldato addestrato e con esperienza non gli serve poi così tanto e puf Vito non deve più ripartire per il fronte.

Tutto questo accade nei primi 5 minuti. Ricapitolando: un immigrato arriva in Merica con la nave dall'Europa, due volte, scappa dalla guerra e incomincia a fare carriera nel mondo del crimine organizzato. La trama ciclostilata di GTA IV.

Il resto della storia è un susseguirsi di snodi narrativi ancora più cialtroni. Per un po' continuate a fare i ladruncoli da quattro soldi. E vi beccano. Ancora. Finite in prigione e qui un'idea potenzialmente geniale come ambientare una sezione del gioco all'interno di un penitenziario viene rovinata in maniera clamorosa. Anche in gattabuia c'è il supereroe mafioso che vive come un maragià e vi prende sotto la sua ala, con le guardie che gli lucidano le scarpe e tutto il corredo di luoghi comuni. Passate il tempo facendo a pugni e scappando dalle checche stupratrici, finché qualche altro mafioso coi superpoteri non vi fa liberare.

Vito torna in città che sono ormai gli anni '50. Continua a voler entrare nella mafia e continua a fare il delinquente da quattro soldi insieme al suo amico Joe Barbaro. Poi la storia perde completamente di senso. In pratica ci sono tre famiglie mafiose in città, solo che non sono famiglie vere e proprie, con padri e madri e nipoti, ma delle specie di associazioni di soli maschi siciliani. Voi prima lavorate per una, poi per l'altra, poi per l'altra ancora. Tutti vogliono ammazzare tutti, ma senza motivo. Poi – per non farci mancare nemmeno un luogo comune – la mafia incomincia a maneggiare la droga e comincia il declino e tutti incominciano ad ammazzare tutti.

Talvolta si raggiunge la schizofrenia. Esempio. Ci sono Vito e Joe che devono uccidere un capoclan. Hanno bisogno di un autista e Joe sceglie un ragazzino che conosce lui. Vito è quello calmo e riflessivo, Joe è quello impulsivo e superficiale. Discutono a lungo, Joe continua a dire che non succede niente, mavalà, un giochetto, cosa vuoi che sia; Vito invece è preoccupatissimo, si sta parlando di un adolescente che non è neppure affiliato. La ragione contro l'insensatezza. Alla fine il ragazzino partecipa alla missione e viene ucciso. I due delinquenti partono di brocca. Joe, che non ha mai provato un sentimento uno fino ad allora, comincia a piangere e soffrire e disperarsi come un prefica; Vito invece diventa improvvisamente übercool e comincia a menarla che questi sono i rischi del mestiere, che tutti sapevano che poteva finire così, che non ha senso avere rimorsi. Un delirio totalmente incoerente rispetto a quanto raccontato fino a 10 minuti prima.

Un altro esempio è Henry. Ad un certo punto questo Henry vuole fare affari con Joe e Vito e tutto va a rotoli, come ogni singola cosa che fanno i mafiosi in questo gioco, e finisce mortammazzato. Joe e Vito sbroccano ancora, perché costui sarebbe un loro carissimo amico. Probabilmente lo era nella versione alfa, ma nella retail è solo uno fra le decine di mafiosi che appaiono per cinque secondi, così il giocatore si chiede chi sarà mai questo Henry? Sarà un amico loro, non so, non lo conoscevo, solo di vista, eh ma cavolo così giovane.

La storia si ingarbuglia ancora un po', fino a che c'è lo sfregio totale. In pratica il protagonista del primo Mafia, Tommy Angelo, diventava un infame collaboratore di giustizia e il gioco si chiudeva con lui ormai vecchio fatto fuori da due sicari nel giardino della sua villetta. Rullo di tamburi... in Mafia II hanno deciso che Vito e Joe dovevano essere quei due sicari e così, fottendosene allegramente del fatto che originariamente i due tizi fossero sulla quarantina e vestiti con impermeabile e borsalino, ad uccidere Tommy Angelo arrivano due giovinastri con la camicia pacchiana ed il giubbotto di pelle. Una caduta di stile gratuita ed immotivata. Eh, dice, ma la macchina usata è la stessa. Sì, la macchina sì, ma le persone no! Siamo ai livelli delle armi di Mass Effect!

Succede ancora qualcosa, tipo che Vito va, fucile in mano, ad uccidere i lavoratori del porto in scioperto, ma questi gli dicono che suo padre è stato mortammazzato da quello per cui Vito lavora e Vito cambia idea, gira sui tacchi ed uccide il suo superiore. Si usa così nel mondo del crimine organizzato, no?

Joe a questo punto vuole uccidere Vito, ma non lo uccide perché insieme uccidono un capoclan e un altro capoclan li va a prendere e li fa salire su due macchine diverse e quella di Joe svolta a destra e quella di Vito va dritta. Fine. Senza senso, fine.

Della storia mancano intere sezioni, eliminate per poter creare un polpettone di serie B, su ordine dei dolicocefali del marketing, i quali hanno già cominciato a rivendere le parti mancanti come DLC a 10 euro a botta. E così vi trovate in mano un gioco che doveva essere story driven ed invece sembra una delle sceneggiature scartate di un film di Mel Gibson, un patetico tentativo di racconto buono nemmeno per un film in prima visione assoluta su Italia1.

Poi si stupiscono che la gente ci rimane male che non è come GTA. Ci credo: una storia sgangherata, dei personaggi ridicoli (Joe Barbaro l'hanno creato così stupido, ma così stupido che il dialoghista ad un certo punto fa dire a Vito “ma Joe, ma lo sai che sei così ritardato che mi stupisco che sia ancora vivo?”), sparatorie e corse in macchina, per forza uno pensa che sia GTA ambientato negli anni '50.

E ovviamente tutto ciò non c'entra niente col fatto che 2K Czech sia sussidiaria di 2K Games, posseduta al 100% da Take-Two Interactive, che possiede al 100% Rockstar Games, di cui fa parte Rockstar North, creatrice di Grand Theft Auto.

E non c'entra niente il fatto che il primo Mafia, perla rara creata dalla Illusion Softworks (ora 2K Czech), fosse stato pubblicato da Gathering of Developers, che aveva come obiettivo tenere gli sviluppatori indipendenti lontani dalle grinfie dei colossi come Take-Two.

Grazie signori del marketing, un'altra bella carriola a riempire la concimaia.

Capitambientalismo

Decenni di attivismo politico e di impegno sociale slegati dalla necessità di migliorare la propria condizione materiale hanno portato masse di persone a credere che l'anidride carbonica sia un gas tossico e che l'effetto serra sia dannoso per il pianeta. Adesso che abbiamo sostituito le antiche superstizioni con le nuove, arrivano pescatori armati di succose esche per boccaloni. E cominciano a far soldi.

Venerdì ho trovato nella cassetta delle lettere un depliant che a tutta prima sembrava chiamare ad una manifestazione ambientalista. Immagini del disastro della BP, picco del petrolio, guerre per ottenere il gas dall'Asia. Invece no. Era la pubblicità di una ditta che installa impianti di riscaldamento elettrici.

Perché – diceva il depliant – se adotti il riscaldamento elettrico in casa, non consumi petrolio e gas naturale. L'elettricità non sporca e non fa fumo. Basta attaccare la spina.

Der Parkplatz als Wille und Vorstellung

Per far capire bene che differenza passa tra l'Italia e la Germania, passiamo all'esempio del parcheggio. È una cosa che ci spiega meglio di mille libri di sociologia.

I tedeschi rispettano linee e cartelli, in maniera rigorosa. Se si può parcheggiare parcheggiano, se c'è un cartello che dice “riservato” il posto rimane libero. In Italia invece linee e cartelli sono più che altro un suggerimento. “È meglio non parcheggiare qui”, “sarebbe riservato”, “prova magari più avanti”. Ma non è che proprio si seguano alla lettera.

Sarebbe facile trarne l'equazione tedeschi civili, italiani buzzurri. Ma non ho finito.

In base a quanto enunciato, se il luogo deputato a parcheggio non è definito da specifiche linee o cartelli, i tedeschi mancano completamente della capacità di posteggiare. Per esempio, a volte capita che non ci siano le strisce che delimitano lo spazio destinato ad ogni macchina. Mancando queste strisce, pensano che tutto sia lecito, visto che niente è esplicitamente vietato. Di solito succede che dove c'è spazio per sei macchine ce ne stiano due, perché i primi che arrivano si prendono tutto lo spazio possibile.

Gli italiani invece tendono ad occupare lo spazio in maniera più organizzata: la mancanza di una presenza autoritaria non è un problema, visto che qualunque sia la regola, loro la interpretano a seconda della necessità particolare. Ed infatti da noi ci sono abili mastri parcheggiatori che compongono file di auto con i paraurti che si sbaciucchiano teneramente. Persino io lascio di stucco i tedeschi e si chiedono meravigliati come possa essermi infilato in quel pertugio.

Questo spiega un po' tutto di noi. I tedeschi fanno sempre quello che la regola dice. Finché c'è una regola, tutto funziona. Quando la regola manca sbandano, vacillano, barcollano e non sanno come uscirne. Invece per noi la regola può essere infranta, ma quando siamo lasciati a noi stessi diamo il meglio, sappiamo adattarci ad ogni situazione e non ci preoccupiamo molto.

Infine, spero che quello che mi ha rifatto la fiancata della macchina nel parcheggio del supermercato e se n'è andato senza lasciare nemmeno un biglietto per dire ciao – dicevo: spero che sia un mio lettore.

Chissà che non ci si incontri un giorno. E quel giorno ti verrò vicino e ti abbraccerò. Forte forte. Forte forte forte. Finché non sentirò più il battito cardiaco. E ti lascerò lì, senza chiamare nessuno, senza lasciare un biglietto.

100 lire


In effetti non so quanto l'interuebz sia specchio o campione della popolazione, quindi evito sempre di formulare giudizi generali in base a quello che leggo in rete. Però mi pare di notare che qualsiasi argomento generi una polarizzazione che si tramuta in scontro e lo scontro si tramuta in zuffa e alla fine non si sa più di cosa si parla.

Prendete il fatto di andare all'estero. Da un parte ci sono quelli che bisogna lasciare l'Italia che è il posto più schifoso del mondo non come qualunque posto basta che non sia qui io vedo come va ma se non cambia io me ne vado.

Dall'altra ci sono quelli che ma manco per niente è tutta fuffa noi siamo migliori di tutti e quelli che se ne vanno ci fanno solo un favore che come l'Italia non ce n'è nessuna.

Ai miei tempi andare a studiare all'estero o andare a lavorare in giro per il mondo era considerato un privilegio e, soprattutto, una cosa bella. Ci si sentiva fortunati.

Io mi sento ancora così. Sono anni che lavoro o vivo con persone da tutto il mondo, dal Giappone facendo tutto il giro fino agli Stati Uniti. Mi sento un po' un privilegiato, perché so che tanti mi invidiano e vorrebbero essere al posto mio. Non mi sento un martire dell'oppressione italica, non mi sento un cervello in fuga, non mi sento in fuga.

È vero che andando in giro ho capito che l'Italia non è il peggior luogo del mondo. Bisogna essere onesti quando si formulano giudizi: ci sono posti dove si sta davvero peggio, dove si fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, cose che in Italia ci siamo dimenticati 60 anni fa. È un'offesa a chi sta male frignare su come si sta in Italia. E poi non è neanche vero che le nazioni dell'Europa ricca siano così migliori dell'Italia. Per molti aspetti lo sembrano, ma se si cambia la prospettiva la realtà si dimostra un po' diversa.

E mi dispiace che le discussioni spesso prendano delle pieghe incomprensibili, tra coloro che usano il loro status di “expat” come rivalsa sulle angherie subite alle superiori e coloro che gettano acido su tutto quello che sta loro intorno.

Qualche mese fa ho conosciuto un americano che lavorava per una ONG in Bielorussia. Quando il governo bielorusso ha espulso diplomatici e ONG americane, ha dovuto lasciare il Paese insieme alla moglie bielorussa. Si sono trasferiti in Lituania. Quando mi raccontava queste cose, si è forse lamentato? Ne avrebbe avuto motivo? Probabilmente sì, essere cacciati da un Paese non deve essere una bella cosa. Ma lui no, non si è lamentato. Semplicemente, mi ha detto che a lui piace vivere in Lituania perché, come ogni volta che si arriva in un Paese nuovo, anche i gesti quotidiani non sono più scontati: dove non si parla la lingua, persino fare la spesa diventa una piccola avventura.

Personalmente preferisco mantenere questo spirito, quello che avevo la prima volta che me ne sono andato a zonzo. Godermi la situazione così com'è e, quando non sarà più di mio gradimento, cambiare e cercare qualcosa di meglio. In Italia, in Germania, alle Galapagos o dove sarà.

Vi dico un segreto però: quando leggete dei geni finalmente compresi, non crediate che in realtà stiano facendo chissà che cosa. Nell'azienda dove lavoravo prima Logistics Manager era il ragazzo che si occupava del lavoro “pesante”, cioè di sedie, scrivanie, lampadine, cavi e monitor. Era finito lì dopo aver combianto qualche casino. Capitemi, il suo lavoro serviva a mandare avanti la baracca, però Logistics Manager suona di un bene che se lo sentite pensate ad uno yuppie con il megaufficio e le segretarie in bikini e invece era un tipo bassetto con i guanti da lavoro infilati nella tasca posteriore dei pantaloni.

E un'altra cosa: più o meno dappertutto la gente si assomiglia. Non ci sono più imbecilli qui o lì, la maggior parte delle persone è impegnata a tirare a campare senza rogne, come voi e me, e alla fine ognuno è diverso dall'altro e non c'è modo di sapere come, finché non lo si è conosciuto.

Tranne i tedeschi che portano le birchenstoc coi calzini.  

Innesti


Se si prende una persona di una qualunque nazionalità e la si infila un qualunque Paese del mondo (a patto che non sia quello di origine), succedono tre cose:

1. La persona in questione comincerà a chiedersi come sia possibile che non siano tutti grassi, con il cibo che si ritrovano.
2. Penserà che tutte le ventenni del Paese ospite siano bellissime, mentre dopo i 30 diventano grassissime, non come a casa sua che invece sono tutte belle a tutte le età.
3. Un indigeno che parla un incomprensibile dialetto locale gli assicura che se sta con lui un paio di ore/giorni/settimane, anche lo straniero parlerà la lingua del posto come un madrelingua.

Succede a tutti, garantito.

Filastrocca

Non ho voglia di scrivere niente, così copincollo una filastrocca:

Veneziani gran signori,
Padovani gran dotori,
Visentini magna gati,
Veronesi tuti mati,
Udinesi castelani
col cognome de Furlani,
Trevisani pan e tripe,
Rovigoti baco e pipe,
i Cremaschi fa cojoni,
i Bressan tajacantoni,
ghe n'è anca de pì tristi:
Bergamaschi brusa cristi.
E belun? Porea Belun
te si proprio de nisun



Ecco una versione riveduta e musicata (per chi ancora nel 2010 non parlasse veneto, è una soave presa in giro di leghisti, serenissimi, autonomisti eccetera).


E adesso a lavorare che c'è tutta una settimana da passare a produrre!

Le grasse risate proprio


Stavo perdendo tempo su Facebook, quando vengo attratto dal Fan Club di Gianna Michaels. Clicco subito e mi accorgo che invece trattasi di tale Michela Gianni. Non so chi sia, ma dato che son qua vediamo. Parte il filmatino di Iutiùb. Si tratta di una giovane donna che vuole diventare famosa partecipando a X-factor (pronunciando la ics all'italiana e factor all'inglese fino a fac- e all'italiana per -tor).

Questa giovane donna è evidentemente uno di quei personaggi un po' così, quelli che non riescono a comprendere appieno certe meccaniche sociali e come interagire al loro interno e si comportano a volte in maniera considerata buffa dagli altri. Infatti la signorina vuole sfondare come cantante, ma non sa cantare. Non che sia stonata. È che proprio non sa né modulare la voce, né produrre melodia alcuna, né esprimere il testo inglese della canzone.

Di fronte a lei ci sono tre persone: una è Morgan, le altre sono due anziane signore di cui non conosco l'identità. Visto il modo in cui erano vestiti e parlavano, inizialmente ho creduto fossero la famiglia dell'aspirante cantante, la cui presenza così in qualche modo si giustificava (la classica zia frustrata che sfoga sulla nipote i propri sogni d'adolescente).

Invece capisco che queste tre persone sono i conduttori del programma e, per tutto il tempo del video prendono in giro questa poveretta, che a sua volta non comprende che la stanno prendendo in giro. Non solo, ma poi appare in video il figlio di un cantante dei Pooh, anche lui presentatore del programma, che mette in scena la pantomima del difensore degli esclusi e fa finta di elogiare le persone come Michela (volendo intendere l'esatto contrario). E ancora Morgan e le due anziane signore che la prendono in giro.

Mi è venuto da pensare che bisogna avere tanta segatura nel cervello per prendersela con una persona che non sa difendersi. Ma mi è anche venuto in mente che se ci costruisci il successo di un programma meriti di essere sputato in faccia, per strada, da chiunque incroci. E anche quelli che lo guardano, insomma...

[i commenti che inneggino o condonino o accondiscendano tale programma e/o tali comportamenti verranno rimossi. Questo è l'unico preavviso]

Che spasso la biblioteca


Non mi è mai capitato di conoscere qualcuno che affrontasse in maniera razionale il perché bisogna leggere libri. Tutti pensano che sarebbe bene leggere tanti libri, tutti ammirano quelli che leggono tanti libri e oggi c'è persino aNobii, dove si può  mostrare agli amici quanti libri si sono letti.

Nessuno però vi dice perché. Personalmente rivendico la superiorità del libro non sul piano ontologico (leggere un libro non è un'attività superiore ad altre) ma sul piano che ai libri compete, cioè l'intrattenimento.

Sostengo la superiorità del libro come forma di intrattenimento, e lo faccio per un motivo razionale: il libro offre il miglior rapporto costo/benefici rispetto a tutte le altre forme di svago.

I costi sono esigui. Bisogna saper leggere, e questo è ormai non è più un problema per nessuno. Costa pochi euro. Questo è quanto.

I benefici sono innumerevoli. Intanto esistono libri per tutti i gusti: che si abbia voglia di profondi processi intellettuali, di trame mozzafiato o di languide storie d'amore, c'è sempre il libro giusto. Un libro dura giorni, se non settimane. Lo si può portare dove si vuole senza problemi, non ha bisogno di elettricità, di supporti, di cavi, di spazio, di password, di connessioni. Teme l'acqua, ma polvere, cibo, sabbia, sigarette e vento non lo scalfiscono. Può cadere, sbattere, essere strattonato e strapazzato, ma sarà sempre lì. Non deve funzionare, gli è alieno il concetto di funzionare. Si può interrompere la lettura quando si vuole, e riprenderla quando si vuole, e non l'esperienza non ne risentirà.

Inoltre, ciò che lo rende imbattibile è il fatto che tendenzialmente il costo aumenta al diminuire della qualità. Cioè: esiste una letteratura di consumo, di bassa qualità, ad un costo unitario relativamente alto. Esiste la letteratura di qualità che invece si situa nella fascia di prezzo più bassa.

Così se vi piacciono le schifezze di cassetta pagate tanto, mentre più il vostro gusto è raffinato meno pagate. È un piccolo angolo di giustizia in questo brutto brutto mondo.

Non esiste nessun'altra forma di intrattenimento che offra così tanto a così poco. Il cinema e il teatro durano un paio d'ore al massimo, richiedono di essere presenti in un luogo prestabilito, dipendono dalla tecnologia e comunque non sono disponibili continuamente.

La musica è a metà strada. Quella dal vivo ha le stesse caratteristiche del cinema e del teatro e sovente a costi superiori. La musica registrata, benché sempre disponibile ed anche a prezzi accessibili, richiede una buona dotazione tecnologica per essere gustata a pieno, e in questo caso più alta è la qualità richiesta, maggiori sono i costi necessari per usufruirne.

I videogiochi costano moltissimo ma soprattutto non sono universali: azione, sangue, velocità abbondano, ma spessore culturale no. Bisogna essere veri appassionati, altrimenti non vale la pena.

In qualche modo i telefilm stanno cercando di prendere il posto del cinema, e qualcuno ha finalmente capito che un film di 90 minuti non basta a raccontare un storia come si deve. Ma qui siamo ancora agli albori del genere, sempre che ci sia un'ulteriore evoluzione.

Infine la grandezza del libro sta nella quantità di risorse utilizzate. Considerate i riconoscimenti: un autore e qualche correttore di bozze contro le decine, centinaia del cinema. Considerate gli strumenti: 21 lettere, a fronte di sceneggiatura, montaggio, luci, effetti speciali, CGI, occhiali 3D e musica in surround.

Il libro è la forma superiore di intrattenimento.