Quarto superpotere

Nel suo blog, il sempre ottimo Falecius ha tenuto una piccola lezione riguardo all'islam dal punto di vista linguistico (Falecius è quel che sarei io, se una volta presa la laurea non avessi cominciato a correre come un dannato verso il punto sulla Terra più lontano da un professore).

La serie di post a riguardo è davvero interessante. Per esempio, ora sono conscio del fatto che qualunque modo io utilizzi per indicare la religione del Profeta Maometto e dei suoi seguaci, sarà sempre quello sbagliato. Molte grazie, Falecius.

Interessante è il taglio metodogico dato all'esposizione: siamo di fronte ad un raro caso di etimologia militante, nel quale la disciplina è usata a modo di clava per sferzare le teste del nemico, che in questo caso sono i giornalisti.

Il casus belli è un articolo riguardo ai musulmani del noto professor Sartori, infarcito di un numero tale di errori da dover essere stroncato con successo da chiunque passasse di lì anche per caso. La tesi di Falecius è la seguente: i giornalisti lavorano grazie ai soldi pubblici, quindi hanno il dovere di scrivere articoli che veicolino informazioni corrette e veritiere. In pratica, dice Falecius, vi paghiamo con i soldi nostri, fateci la cortesia di sapere l'ABC del tema che andate a trattare.

In questa posizione si incarna uno dei grandi miti del mondo moderno: quello del giornalismo come faro di cultura, conoscenza e informazione. Io non so chi abbia dato vita a questo mito – suppongo un giornalista – ma è quanto di più lontano dalla realtà ci possa essere.

Un giorno una persona, che aveva lavorato come giornalista per qualche tempo, mi disse una frase che non scorderò mai: il giornalista è l'unica professione di un certo livello e responsabilità che non richiede alcun titolo di studio per essere svolta. Non ci avevo pensato prima di allora, ma è proprio così. Il giornalista è colui che non sa di nulla, ma scrive di tutto. E potrebbe anche non essere un problema, se solo non ci fossero aspettative così elevate sul suo operato.

Pensiamo ai giornalisti che seguono un caso giudiziario: non hanno studiato diritto, non sono stati nella Polizia, non hanno alcuna esperienza processuale. Però devono scrivere di un processo in corso. Cosa fanno? Chiedono. A chi? Alla polizia, agli avvocati e al PM. Non potendo applicare nessun filtro critico a ciò che scrivono, si limiteranno a riportare quello che viene loro detto. E anche qui, niente di male. Putroppo il male sorge quando ci si aspetta che il giornalista veicoli conoscenza e si arrivi a credere che il giornalista sia depositario di una qualunque verità. Il problema è che egli, non potendo vagliare criticamente, riporta da fonti che hanno tutto l'interesse ad utilizzare il giornalista come strumento da piegare ai propri fini. Non intendo dire che ci sia un complotto, dico solo che essendo le fonti altamente inaffidabili, anche l'informazione che ne scaturisce è altrettando inaffidabile. Meno il giornalista è competente, più la fonte diventa inaffidabile.

I giornalisti che ho conosciuto io (giovani leve di testate locali) erano tutti, chi più chi meno, ragazzi con un mediocre profilo culturale (maturità presa per grazia del Signore) che hanno trovato nel giornalismo uno sbocco per le loro non-competenze. Tipicamente, il loro lavoro consisteva nell'andare a raccogliere la dichiarazione dal poliziotto o dal politico locale. Ora, capite che quando un giornalista in erba, un poliziotto e un politico si mettono a discutere, ne uscirà per forza qualcosa di molto lontano dalla verità.

Ma ancora, fin qui tutto bene, se solo il giornalista dicesse “sono solo un povero giornalista, non so fare niente se non farmi dettare quello che devo scrivere, ma almeno metto insieme il pranzo con la cena”. Invece no. Per qualche inspiegabile motivo, nella nostra società il giornalismo viene considerato una professione di nobile profilo intellettuale, con un mandato morale altissimo, purissimo, levissimo. E così ce li ritroviamo a pontificare su tutto, senza sapere di niente. E non solo sui giornali: scrivono libri di “storia”, libri di “economia”, libri di “filosofia” senza essersi mai dedicati ad alcuno di questi studi. Per spiegare la differenza, considerate che una persona che sta per ottenere un dottorato (qualifica minima per poter pensare di pontificare urbi et orbi su un argomento), si è fatta 5 anni di liceo, 5 anni di università e ha passato l'esame per il dottorato, senza contare tutte le varie attività collaterali e lo studio personale. In termini accademici, vuol dire un fottio di tempo e fatica, 10 anni e più di sbattimenti quotidiani. Il giornalista no. Per i primi anni ha cazzeggiato, per gli altri si è fatto dettare da un poliziotto o da un politico cosa scrivere. Capite la differenza?

Falecius, che ha passato tutta questa trafila e molto di più, comprensibilmente si stupisce di come si possa leggere sui giornali gli orrori storiografici che ci vediamo scodellati con malandrina regolarità. Il problema è che altro non può uscire da persone pagate per scrivere di cose che non conoscono.

Ma la colpa non è del giornalista, che fa il suo lavoro. La colpa è nostra che continuiamo ad aspettarci dal giornalista quello che lui non potrà mai darci. Il giornalista non è il sostituto dello studio per gli illetterati, né il tramite che rende la cultura alta appetibile per il popolo. Affatto. Per niente. No.

Quindi, sarebbe il caso che la prossima volta che esce un film come Good Night, and Good Luck, ridessimo tutti fragorosamente, invece di tributargli immeritati onori. E siccome so che a qualcuno già fremono le dita per commentare che “non tutti i giornalisti sono uguali”, che “ ci sono i giornlisti d'inchiesta”, che “sono costretti dagli editori, che altrimenti loro” ecco, io premetto subito che nei Paesi socialisti non c'è mai stato il vero socialismo, che altrimenti... e che nei Paesi capitalisti il grande capitale non è assolutamente protetto dallo Stato con la forza... e che tutto il mondo sarebbe un luogo meraviglioso, se solo fosse quello che non è.

Io, Brucaliffo

Oggi vi spiego perché amo questo Paese. Ieri sera sono andato a prendere la mia dolce metà al lavoro e ci siamo diretti verso un ristorantino turc-persian-libanes-marocchin-quel-che-vi-pare, dove si può anche fumare la šīša (o narghilè, come preferite).

A differenza dell'Italia, qui è normale condividere il tavolo del ristorante o del bar con sconosciuti; in questo ristorante è di fatto obbligatorio, visto che i tavoli sono molto grandi e possono ospitare anche venti persone. Siccome siamo arrivati presto, il locale era quasi vuoto, così ci siamo accomodati sui cuscini attorno ad un tavolo libero. Abbiamo mangiato e poi ci siamo fatti portare una šīša. Dopo una mezz'oretta circa, è arrivato un gruppo di quattro ragazze che si è seduto al nostro tavolo. Dopo dieci minuti, un altro gruppo di quattro ragazze si è seduto al nostro tavolo.

Immaginate: semidisteso sui cuscini di un locale dall'atmosfera orientale, che beatamente fumo la mia šīša circondato da nove giovani donne una più bella dell'altra, garrule nella loro lieta furia dei vent'anni. Se esiste un Paradiso, è esattamente così che lo voglio.

Automessaggio autopromozionale

Poiché sto cercando di migliorare la mia faccia di tolla, che di solito non viene molto bene, ho pensato di usare un post per promuovere me stesso. Vi invito quindi tutti a leggere l'ultima parte del progetto che sto tenendo in piedi insieme a questo bloggheto.

Se fate un salto e seguite il link, ci troverete un racconto. Non sono racconti brevi slegati, ma una storia che si dipana (fico, erano anni che volevo usare il verbo “dipanare”) a puntate, ad un ritmo che varia a seconda di come vanno le cose nella mia vita reale. E daiquanta voglia ho di scrivere. Quindi se capitate lì per la prima volta, consiglio di partire dal primo post a salire, in ordine cronologico.

Il principio che sta alla base di quel progetto è lo stesso che sta alla base di questo blog: fare qualcosa che mi piacerebbe trovare in internet ma che non trovo; dato che non la trovo, la faccio io e poi me la vado a leggere e mi dico “ma quanto è bello l'internèt che ci trovi queste cose interessanti.”

Non ci guadagno niente, sia chiaro. Ma chiaramente la speranza è che un giorno sciami di groupie si accalchino alla porta del mio hotel. O anche di casa mia, va bene lo stesso. E poi io con le groupie non me la tirerei per niente e le farei entrare tutte.

Lo so, lo so che le groupie seguono i musicisti, ma io non so suonare e comunque mi piacciono le groupie con gli occhiali.

Non mi resta altro che augurarvi buona lettura. Per proseguire seguite il link sottostante:

Declassati Sottomessi Disgregati

Se ci fosse Robin Hood

Ci sono alcune cose che a noi paiono così ovvie e scontate, così macroscopicamente in bella vista che non riusciamo a comprendere come tutti quelli che ci circondano non le vedano. Di esempi ne avrei molti, ma oggi mi interessa discutere della personificazione dell'azione di governo. È la naturale tendenza a discutere di fatti politici attribuendone al paternità ad una sola persona: Bush ha fatto questo, Putin ha fatto quest'altro...

Questa tendenza è ampiamente giustificata dal fatto che veniamo istruiti sin da piccoli a pensare in questo modo, oltre ad avere una cultura secolare alle spalle che non aiuta. Il mito antico individuava un “primo scopritore” o “inventore” per ogni cosa. Generazioni di studenti si sono formati su libri come “Le vite parallele” e “Le vite dei Cesari”. Esiste cioè un filone nobile del pensiero che individua le cause delle umane vicende nelle azioni di singoli individui (i viri illustres dei romani). Non è difficile da spiegare: le azioni di un singolo uomo sono comprensibili, l'insieme dei molteplici fattori che determinano gli eventi no; inoltre, le fonti riguardo alle azioni di un singolo uomo abbondano, quelle dei fattori oggettivi no (e tanto più si va indietro nel tempo tanto più questo è vero).

Siamo autorizzati a definire l'Iliade opera di Omero e la nascita dell'impero romano opera di Ottaviano, ma lo facciamo perché le fonti non ci permettono nulla più ed è implicita la convenzione per economia di linguaggio. Quando però si abbiano a disposizione numerose fonti e ben documentate, non è più accettabile il ricorso alla personificazione. Nella storia recente come nell'attualità, ritenere che un uomo solo possa determinare il corso degli eventi è un atteggiamento superficiale.

È sufficiente assistere, in questi giorni, al baccano che si sta scatenando intorno a Craxi. Secondo alcuni, Craxi ha distrutto l'Italia; secondo altri, l'ha salvata da morte certa. Tutto da solo. Il suo cervello era collegato ad un übermainframe nel sottoscala di palazzo Chigi e di lì dirigeva ogni cosa. Ogni cosa.

Non voglio certo sottovalutare l'influenza che un Presidente del Consiglio ha sul proprio Paese, ma qui si stanno dimenticando le basi di qualsiasi ragionamento che si mantenga almeno all'interno di un minimo buon senso. Craxi è stato Presidente del consiglio una volta sola (due di fila, per essere precisi), dall'agosto 1983 all'aprile 1987: tre anni e nove mesi scarsi. Sarà anche stato bravo o malvagissimo, ma cosa può aver fatto in meno di quattro anni e con in mezzo una crisi di governo?

Poi, tutti si dimenticano sempre il particolare che l'Italia è una democrazia parlamentare. Vuol dire che la centralità dell'opera politica appartiene al Parlamento, non al Governo. Il Governo è subordinato al Parlamento e può da esso essere sostituito in qualsiasi momento, come infatti succedeva con cadenza quasi annuale fino all'arrivo di Berlusconi sulla scena. In un sistema parlamentare proporzionale la creazione di un governo risulta dall'accordo di diverse forze politiche, visto che nessuna – nemmeno la DC dei tempi d'oro – riusciva ad ottenere la maggioranza assoluta. Puntualmente, il governo Craxi era sostenuto da 5 partiti (DC, PSI, PRI, PSDI, PLI), perché alle elezioni dell'83 il Partito Socialista aveva ottenuto l'11 percento dei voti. Il PSI era sì il terzo partito in Italia, ma non era una forza sociale dirompente, non aveva i numeri dalla sua. Quindi, che piaccia o meno, Craxi faceva parte di un sistema più ampio, complesso e articolato che di certo non poteva comandare a bacchetta, né dirigere a piacimento.

Esaltare Craxi o, al contrario, ritenerlo responsabile di ogni male, è un giudizio superficiale e immotivato, che non ha alcuna valenza se non sul piano emotivo, con la creazione di un mito o di un capro espiatorio. In ogni caso ne risulta un personaggio grottesco e onnipotente, in grado di manipolare l'Italia a proprio piacimento come se fosse fatta d'argilla.

Non credo sia necessario spiegare che in un sistema complesso come una Nazione moderna l'intervento di una sola persona, per quanto potente, non abbia particolare influenza sul lungo termine. È un'idea infantile. È la stessa idea per cui Obama avrebbe dovuto essere la svolta a 180° della politica americana, quasi che questa sia una partita di calcetto tra amici, dove basta che qualcuno gridi “rigore” perché il gioco si fermi e ci si metta a decidere se è rigore o meno.

Purtroppo se questo è il tenore del dibattito non solo dell'opinione pubblica mainstream, ma anche dei commentatori underground di internet, penso che assisteremo soltanto a scontri tra gente con la schiuma alla bocca che grida “ladro” e “eroe” in faccia agli altri.

Un po' quello che succede con Mani Pulite: un'inchiesta che ha portato in galera qualche potentucolo, che ha creato qualche sussulto qui e lì e poi basta. Non è crollato nessun sistema, non è cambiato niente. Certo, alcuni personaggi sono spariti per motivi anagrafici. Craxi, che si era costruito una carriera con modi da dittatore all'interno del PSI, al primo alito di vento è stato abbandonato dai suoi stessi sostenitori, come tutti i dittatorelli. I partiti hanno cambiato nome. Per il resto tutta la classe dirigente che c'era prima è rimasta. Metà dell'attuale governo è composta di ex socialisti; Berlusconi senza Craxi non esisterebbe nemmeno. Il resto del Parlamento sono tutti ex qualcosa, DC e PCI soprattutto. Amato, Ciampi, Prodi, Dini sono tutti politici che appartengono alla cosiddetta prima Repubblica. E quelli più giovani (per modo di dire) come d'Alema, Fini, Casini, hanno trascorso la loro vita in una sede di partito e sono stati educati secondo le regole di allora. Mani Pulite è stato un accidente che non ha mai interrotto la continuità del nostro sistema politico.

La vera differenza col passato è che oggi succede che qualche politico venga indagato. Una volta non succedeva, oggi sì. Purtroppo è inevitabile, in un sistema che funziona solo attraverso la corruzione. È un sistema dove persino un Marrazzo qualunque, decisamente una personalità defilata e sottotono, passa il suo tempo libero tra cocaina e prostitute, quindi figuriamoci cosa fanno gli altri. Il povero Craxi lo sapeva e aveva usato questo fatto come difesa: se tutti rubano, siamo tutti colpevoli. Se siamo tutti colpevoli, nessuno è davvero colpevole. Quel patetico appello al Parlamento voleva risuonare come l'atto del grande uomo. Ma il pubblico di ladri, che della moralità aveva fatto strame per anni, non ha raccolto: hanno fatto il gesto dell'ombrello e l'hanno lasciato scivolare verso il suo destino. E non si può dire che quelle parole non suonino ridicole: un ladro che fa appello agli altri ladri per mettersi d'accordo su come smettere di rubare è una scena surreale, buona per qualche commedia e niente più.

Ma siamo in Italia e c'è sempre qualcuno pronto a difendere i forti. Me ne sono fatto una ragione.

Filosofia Politica/2

In politica, gli intenti non sono i risultati.

Competenze reprise

Sappiate che stasera volevo scrivere un post. Solo che mio fratello mi ha chiesto via messenger di trovare il driver della scheda ethernet del computer di mio padre, che lui non ci riusciva. Ne aveva bisogno perché XP non riconosce più la scheda. Si vede che dopo nove anni di convivenza si è stancato, chi lo sa?

Ora, questo driver pare si possa scaricare solo dal sito Microsoft. Dal sito Microsoft si può scaricare solo se si sta utilizzando un sistema operativo Microsoft. Che né io né mio fratello abbiamo sul computer. Così requisisco il laptop di Frau Angelo, sul quale gira XP. Perfetto!

No. Perché quel driver si può scaricare, ma solo come update del sistema operativo che si sta utilizzando. Quindi il sistema di update di Microsoft controlla il computer di Frau Angelo, che ovviamente è a posto, e non mi permette di scaricare alcun driver.

Morale: se il vostro computer non può connettersi ad internet per colpa della scheda ethernet, basta connettersi ad internet e scaricare i driver della scheda ethernet dal sito di Microsoft.

It makes fucking sense!

In questo momento sto prendendo a testate la stampante, ho preso a pugni i miei due hard disk esterni e quello della mia ragazza e mi sono fatto un piercing al glande con il trapano a percussione.

Ho inoltre insultato Dio, suo Figlio e sua madre/figlia con i peggiori epiteti; ho dichiarato la guerra santa ai musulmani al grido di Lepantooo!; ho scatenato un pogrom antiebraico; ho riannesso il Corno d'Africa e l'Albania all'Italia; ho inviato l'Enola Gay 2 a piallare il Giappone.

Come potrete immaginare, niente più post.

Thanks a lot, Ballmer. I hope you fucking die, asshole. And thanks a lot Jobs, too. Why?!? Because you are a fucking asshole too, that's why! And Torvalds... fuck you too.

Fuck you all!!!

Confesso: sono figlio di un predicatore

Volevo solo dare spazio ad una cantante che in Italia non ha lasciato un grosso ricordo di sé. Ebbe parecchio successo negli anni '60 in patria, l'Inghilterra, ma non so quale sia stata la sua influenza sulle generazioni future (a parte una cover dei Cypress Hill). Ah, ha pure partecipato ad un Festival di San Remo, non s'è fatta mancare niente. Di lei mi piace soprattutto che sono l'unica persona che ho mai incontrato in vita mia che la conosce e l'apprezza. Signore e signori, Dusty Springfield (in coda, piccola comparazione che spiega la differenza tra la musichetta strappalacrime italiana e la musica leggera propriamente detta).

Ed ora una canzone, due versioni. Apprezzate le differenze.

Versione italiana

Versione bella

Dimenticavo: se qualcuno non fosse d'accordo con questo post, in fondo a destra c'è la porta. E non mi interessa se suonate i bonghi da Dio. La porta continua a rimanere in fondo a destra. Grazie.

Tira la palla, mordi l'esca

Da circa due anni e tre appartamenti mi aspetta sul comodino un libro molto interessante: L. Canfora, La democrazia. Storia di un'ideologia, Roma-Bari 2006² – che finalmente ho iniziato a leggere. Canfora è docente di filologia classica a Bari, uno dei pochi antichisti noti al di fuori dell'ambito accademico e penna particolarmente colta, arguta e stimolante. In questo libro si traccia il percorso del concetto di democrazia a partire dalla sua origine greca per arrivare ai giorni nostri.

La storia è bella perché, quando fatta bene, scardina i luoghi comuni ed i concetti sedimentati nel senso comune. La democrazia non fa eccezione. Cercherò di non svelare il finale dell'opera, ma posso certamente anticipare la tesi di fondo: l'ideologia democratica, da sempre, reca in sé i germi della tirannide. Oltre a ciò, essa si costituisce di un'ambiguità di fondo che le impedisce di essere davvero ciò che afferma di essere: il governo di tutti. Ogni volta che un popolo si è dato un ordinamento democratico, si è anche dato dei limiti precisi su quanto democratico dovesse essere. Atene si definiva democratica, ma i diritti civili erano ristretti ad un numero limitato di persone. Gli Stati Uniti si definivano una democrazia, ma convivevano con la schiavitù ed un sistema politico decisamente elitario. E così via.

Ed in effetti la riflessione di Canfora (solidamente sostenuta sul piano espositivo e delle fonti) è talmente buona che riesce a dare spiegazione di molti fenomeni; quando il potere politico rincorre il consenso del popolo nel suo complesso, rischia di trasformarsi nel contrario della democrazia: la tirannide greca, il cesarismo romano, il bonapartismo francese, il fascismo italiano... La ricerca del massimo di libertà produce la negazione della libertà.

Questa riflessione mi ha fatto capire che viviamo tempi strani. Il nostro sistema politico-economico è talmente complesso e stratificato da essere contemporaneamente il migliore ed il peggiore che il mondo abbia conosciuto. È un mondo fatto di contrasti ed antitesi che non si ripianano ma che si alimentano a vicenda. Abbiamo un sistema economico che crea il massimo della ricchezza e contemporaneamente produce il massimo del degrado; abbiamo un sistema politico che aborre le guerra e che contemporaneamente sperimenta le più grandi devastazioni; esaltiamo la libertà come valore fondante e creiamo le più feroci dittature.

È un mondo incomprensibile al singolo, che non riesce a ricondurre ad unità le diverse spinte cui è sottoposto. Per qualche millennio i popoli sono vissuti sostanzialmente allo stesso modo, società agricole i cui codici erano dettati da necessità di ordine superiore che, in quanto tali, non permettevano né scelta né disobbedienza. Non si poteva trasgredire al volere della natura che regolava pioggia e siccità, abbondanza e scarsità, salute e malattia, morte e vita: si era dipendenti da essa e non vi era altra via che accettare l'ordine costituito. E l'ordine costituito prevedeva l'esistenza di Dio, dei suoi vicari clericali, dei suoi agenti incoronati e delle preghiere di scongiuro.

Quando però la natura ha smesso di essere madre e matrigna ed è divenuta ancella umile e sottomessa, in un poderoso effetto domino si sono fatte saltare tutte le necessità fino a prima così imprescindibili: non temiamo più la carestia, non aspettiamo più la pioggia e sfidiamo la morte inghiottendo delle pilloline bianche; così Dio non è dato più per scontato, né il suo clero né i suo agenti incoronati. Non c'è più un ordine necessario superiore, ma dato che noi abbiamo bisogno di un ordine, dobbiamo crearcene uno.

Ci è necessario sapere cosa accade di fronte a noi. Siamo istintivamente portati a classificare il reale in base al suo grado di pericolosità, di vantaggio e di utilità, ma non è facile come un tempo. In più siamo costretti ad avere un'opinione per tutto. Dobbiamo avere un'opinione per votare, per leggere il giornale, per discutere al bar, per capire il mondo. E per avere un'opinione, dobbiamo ridurre la complessità del mondo, perché eccessiva. Abolendo la complessità, classifichiamo l'esperienza secondo il criterio binario buono/cattivo. In base a questa scelta, derivano i ragionamenti.

Rivoluzione francese: essa contiene sia il germe di tutto ciò che di buono il mondo moderno ha conosciuto (libertà) come pure il male (il Terrore), ma si deve scegliere se essa sia stata buona o cattiva, perché non è concepibile che sia insieme buona e cattiva. E allora qualcuno sceglierà che sia buona, esalterà gli aspetti positivi e minimizzerà quelli negativi. Al contario, qualcuno sceglierà che sia cattiva e procederà in senso inverso.

Capitalismo: ha creato ricchezza, abolito la fame, estratto le masse contadine da una vita di stenti; ma anche creato masse di miserabili, guerre imperialiste, nuove forme di schiavitù. Si deve scegliere: è male o bene? Chi dirà che sia bene, ignorerà le parti negative; chi dirà che sia male, ignorerà ogni vantaggio da esso creato.

Per ogni avvenimento o processo storico si è di fronte a questa scelta, che è quasi inevitabile. O di qua o di là. Tertium non datur.

Sarebbe interessante comprendere quale sia il meccanismo che ci fa scegliere l'una o l'altra opzione. Probabilmente è un processo meno razionale e cosciente di quel che si creda. Forse è poco più di un caso, di una serie di accidenti slegati ma consequenziali che agiscono sulla nostra sfera emotiva. È il desiderio di dividere il mondo in “bene” e “male”, di semplificarlo ai minimi termini così da poterlo percorrere sani e salvi fino alla fine.

Su questa semplice debolezza fa leva chi ci vuole convincere: politici, venditori, preti e blogger. Ci mostrano un succoso pezzo di semplificazione e, quando lo mordiamo, un amo acuminato si aggancia al nostro palato e ci tira su, pronti a finire sul piatto del pescatore.

Io faccio così: quando leggo o sento qualcuno con la spiegazione di tutto, smetto di leggerlo o ascoltarlo e faccio altro. Cose particolarmente irrilevanti o superficiali. Per festeggiare lo scampato pericolo.

Italiano nel mondo

La lingua italiana è penetrata in quella tedesca principalmente in due ambiti, quello culinario e quello della moda. A parte qualche qualche svarione ortografico, tipo Pasta Schuta, e qualche vezzo, tipo Marc O'Polo, diciamo che l'italiano serve a dare un tono di buon gusto al prodotto commerciato. Ma l'uso più interessante è nel campo dell'amore:

Magre false

Leggo sul Corriere un articolo (un post dal blog di Alessandra Farkas) riguardo al servizio fotografico di cui ho parlato nel post precedente. Il titolo recita: "Grasso è bello. V-Magazine sfida il mondo della moda." Dopo un po' di bla bla e qualche immagine di prigioniere dei campi di concentramento nazisti, l'articolo – sottolineiamo: scritto da una donna - si conclude così: "Siamo quindi alla vigilia di una rivoluzione all'insegna del "Grasso è bello"? La speranza è che non si tratti di un fenomeno passeggero, ma di una svolta davvero epocale."

Ma io mi chiedo dal profondo del cuore: ma la vogliamo smettere di far tracimare i pensieri dalla scatola cranica solo perché si scrive per una testata nazionale? Quelle donne non sono grasse, sono normali. Nor-ma-li.

E quando dico normali, non intendo che tutte le donne devono essere così. Non sto stabilendo un nuovo canone di bellezza. Dico solo che è il mondo è pieno di donne dalle forme rotonde, come è pieno di donne alte e filiformi.

Oltre ad essere normali, sono anche considerevolmente attraenti. Fatti salvi i gusti personali di ciascuno, quelle donne sono infinitamente più belle delle intellettualine da salotto cultural-onanistico milanese, che leggono i giornali della gente perbene, che passano le serate a discettare di femminismo e a farsi di bamba in compagnia.

Francamente mi sono stancato. Sarebbe anche ora la facessero finita. Non capiscono che quello che scrivono viene letto da migliaia di donne, anche giovani, e che dire ad una ragazza “mi piaci come sei, anche grassa” è come dire ad un malato di sindrome di Down “ti voglio bene per come sei, mongoloide ritardato”? Non potete dire ad una donna che “grasso è bello”, perché le state dicendo che una cosa rivoltante è bella: si sentirà ancora più uno schifo! È come dire “cara, certo non sei bella come me, ma sono sicura che da qualche parte ci sarà un uomo abbastanza pervertito da sentirsi attratto da te”.

Cosa non è chiaro? E dire che a scrivere è una donna, queste cose dovrebbe spiegarla lei a me. Se poi ad alcune piace vivere mangiando insalate e facendo palestra, con il naturale risultato che a trentacinque anni sembrerà una vecchia incartapecorita, a me va bene; anzi, consiglio di raddoppiare il carico di lavoro e dimezzare l’apporto calorico per accorciare l'agonia. Ma per favore, per favore che eviti di rendere partecipi gli altri delle proprie fissazioni. I giornali nazionali non sono lo sfogatoio di pensieri da magroline inacidite, sono dei potenti mezzi di comunicazione che riescono ad influenzare la vita delle persone.

E soprattutto non trattate con condiscendenza quelli che non vivono come voi.

È già difficile convincere fidanzate, amiche, sorelle, madri, nonne, suocere e cognate che no, una 34 non è una taglia extra-large, se vi ci mettete pure voi non è più finita. Andate a fare le progressiste da qualche altra parte, create dei gruppi di autosbrodolamento per donne secche e alla moda, fate quello che volete, ma fatela finita col finto progressismo del “grasso è bello”.

NOTA: questo post è stato pubblicato secondo la versione incivilita. La prima versione conteneva un tale quantità di insulti e parolacce da essere decisamente illeggibile. Volevo condividere coi lettori il mio buon senso.

Primo giorno di lavoro

Oltre a dovermi riabituare alla tastiera tedesca, inizio il nuovo anno lavorativo con Repubblica che finalmente pubblica una notizia che riesce a destare il mio interesse. Complimenti ai ragazzi della redazione, spero che continuiate così per tutto il 2010, che in ufficio spesso ci si annoia a leggere sempre di Berlusconi e del telefascismo che avanza trionfante.
UPDATE: il post non è sarcastico, ma serissimo.

Turismo culturale

Ho appreso con molto ritardo la notizia della coppia italiana rapita nel deserto. Augurando loro e alla famiglia ogni bene, mi si è tuttavia creata in mente una connessione di pensieri. Non ho capito bene cosa ci facessero i due coniugi nel deserto, se non sbaglio la signora è originaria del Burkina Faso e lì si stavano dirigendo. Però potrebbe essere la tipica vacanza che la mia donna o le sue amiche mi propongono ogni mese. Al momento la meta dei desideri è l'India.

Io mi chiedo da dove nasca tutta questa voglia di andare a fare le vacanze in posti dove non puoi bere l'acqua, non puoi mangiare verdura fresca, devi vaccinarti contro malattie da noi debellate da secoli, sono talmente poveri che anche io sembro ricco, c'è un buon numero di persone che ha capito che rapendo me riceve un sacco di soldi dal mio governo e delle organizzazioni che hanno deciso che io sono il male e quindi mi uccidono.

Dice che c'è la cultura diversa da scoprire. Vero. Cioè... vero sì, per modo di dire: una cultura che ha le caste, non costruisce le fogne, pensa che una vacca rinsecchita che grufola nell'immondizia sia sacra e fa dei film involontariamente comici non è che mi attragga poi così tanto. Ma anche volendo concedere il beneficio del dubbio, una cultura si apprezza dopo aver studiato parecchi anni la lingua, la storia, l'arte di un Paese. Per me invece, che non so nemmeno leggere le indicazioni stradali, quale cultura mi aspetta? Nessuna, mi aspetta la paccottiglia kitschig preparata in loco per spennare il turista occidentale tonto e danaroso. In quanto italiani, dovremmo saperlo tutti bene. Io poi ho avuto a che fare per anni con una meta del turismo culturale mondiale, per cui considero qualsiasi tipo di turismo, soprattutto quello culturale, una sorta di redistribuzione delle ricchezze dai Paesi ricchi a quelli poveri, sotto forma di furto a fin di bene.

Turismo culturale for dummies

Excuse me, sailor! How much is it for a gondola ride?

Duxento euri pa' un'ora. De pì che un dotòr dea figa!

Oh, 200 dollars...

No, signora. Duxento euri, che farìa 290 doeari. No a capisse un casso!

I see, 290 euros then?

Sì, proprio, 290 euri. Pagamento anticipà. Dai signora, ea monta su che ndemo, non go mia tempo da perdar mi, casa go a mugèr che rompe i cojoni se no rivo pa' l'ora de magnàr.

Oh my god, this city is sooo beautiful. Are you a real Venetian?

Certo signora. Me nono gera Doge.

What's a doge?

El doge xe come... chi gavìo valtri, Bush?

No, the president is Obama now.

Eco, valtri gavì Osama...

Not Osama: O-ba-ma!

Quel che xè... valtri gavì Obama, nialtri gavemo el Doge.

So, your grandfather was the President and Commander in Chief?

'Na spesie. El Doge xè de pì de un presidente. El xè 'na roba granda, insoma.

Gosh! And now, is your family still into politics?

Ma, dirìa de no. Gavemo capìo che 'a poitica xé 'na roba bruta e gavemo moeà.

Look at that! What is it? [indicando una casa qualunque che espone una bandiera, NdR]

Quea xé 'na bandiera, signora.

But... what does it mean?

Gnente signora, niente. 'A varde, mi vago al stadio tute 'e domeneghe, ma chea bandiera eà no 'a go mai vista. 'A se fassa i cassi sui che 'a vedarà che 'a sta mejo.

I really would like to know the history of that flag. Probably that's an old old building, dating back to the Roman Empire, or maybe before Christ...

Certo signora, se 'a vol ghe conto anca 'a storia de l'orso.

Oh no, but please, would you sing a traditional Venetian song for me?

Certo signora. 'Speta che taco. Che bella cosa na jurnata 'e sole/n'aria serena doppo na tempesta! Ghe ga piasùo, signora?

Lovely! Another one, please?

Certo! O mia bela madunina, che te brili de luntan!

How sweet!

[Incrociando un'altra gondola] Òu Denis, ti xè ancora drio lavorare?

No sta dirme gnente. Go caricà sta squadra de Cinciunciàn e 'i vol far el giro de tute 'e isoe. Ti, invese?

Mi go sta mericana rincojonìa. 'A xe anca vecia, no me penso de taconarla gnanca na s'cianta.

Ma dai, 'e vecie 'e xé 'e pì brave.

Va' in mona, sborà de un sborà!

De che a troia de to mare!

Ti e ta morti!

Ciao!

Ciao!

What did he say?

Gnente signora, roba de marinai. Bisogna sempre dirse se riva 'a tempesta, se ghe xé pericoeo de onde alte. No se sa mai.

Oh God. Are we in danger?

No signora, tuto tranquio. Ma anche se ghe fusse pericoeo, 'a xé in bone man. 'A staga tranquia e no 'a rompa i cojoni.

Thank God!

Dai forsa signora, 'a smonta che go da fare. Dunque, pagà 'a ga pagà, cantà go cantà, tanti saeuti e bona note. Pecà che a sia cussì ciciona, sinò 'na pinciadina che stava anca ben.

Thank you so much for the trip. I loved it! Bye, have a nice day.

[più tardi al telefono]

Oh dear, you cannot imagine how astonishing! I saw ancient buildings, listened to traditional songs, met real sailors as they were 2000 years ago. Everything is like a dream. And the people are so friendly! You must visit this city!

[intanto Denis, con il suo carico di orientali]

Questo è quello che succede a tutti i turisti quando vanno a scoprire le culture diverse: vangono presi per i fondelli e privati del loro denaro. Per questo ho deciso che in vacanza andrò solo dove l'acqua è potabile, non ci sono rovine da visitare e non devo vaccinarmi contro qualunque cosa prima di partire. Perché ogni città ha i suoi gondolieri, ricordatelo.

Cavalieri teutonici alle crociate

Nel rapporto tra stranieri, una delle cose più difficili da fare è riuscire a soddisfare i pregiudizi del proprio interlocutore. La prima volta che sono andato all'estero per lavoro è stato davvero estenuante. Un bel giorno – non qui in Germania, in un altra nazione – dovevo andare con due colleghe in un'altra città per una specie di conferenza. Dovevamo andarci con il trasporto pubblico, così ci siamo dati appuntamento di fronte all'ufficio per le 7. Sapete, era tipo la prima settimana lì, dovevamo prendere i mezzi, questo e quell'altro, alle 7 mi presento di fronte all'ufficio. Le due colleghe sgranano gli occhi e guardano l'orologio, meravigliandosi che io sia puntuale. Perché sapete, gli italiani sono sempre in ritardo. E sapete, gli italiani passano ore al bagno. E cantano sempre. Un ragazzo una volta mi ha anche detto che noi italiani siamo anche molto scuri di carnagione. Siccome io in questo bel quadretto non ci rientro proprio, voleva dire non ero italiano. E non c'è stato verso di far cambiare loro idea. Dopo nove mesi, il massimo che ho ottenuto è di essere classificato come “austriaco”. In effetti la mia terra un tempo faceva parte dell'Austria, ma ormai non se lo ricorda più nessuno, quindi...

Tutto questo per dire che il contrasto tra pregiudizio e realtà può essere davvero doloroso a volte, tanto da arrivare a far preferire l'errore del pregiudizio alla verità della reale.

Naturalmente ci sono passato anche io quando mi sono trasferito in Germania. Come tutti gli italiani, vivevo nel mito dell'efficienza tedesca. Questo era per me, come per tutti, un pregiudizio privo di ogni riscontro concreto. Alzi la mano chi non conosce l'efficienza tedesca. Alzi la mano chi può dire su quali basi empiriche si basa.

Premetto che, come per ogni post in questo blog, esprimo un punto di vista soggettivo che non va interpretato come studio sociologico od economico, ma come semplice esperienza di vita. Io mi faccio le cicatrici e poi vi racconto la storia di come me le sono fatte. Sta a voi se crederci o meno.

Quando si arriva in Germania, le prime cose che si notano sono poche. I treni, il sistema di trasporto pubblico, se siete giovani la vita universitaria. Venendo dall'Italia, l'esperienza di queste cose vi dà l'immagine della Germania. E l'immagine è sostanzialmente positiva. Perché è un dato oggettivo che i treni funzionano bene. Il trasporto pubblico è eccellente (la prima volta a Berlino rimasi basito dal sistema integrato U-Bahn/S-Bahn/Tram/Bus, tanto è esteso e capillare). L'università è gratuita, bella, fornita. Questo è il primo impatto. Se ci andate in vacanza, se fate l'Erasmus, è anche l'unico impatto. Se invece vi stabilite più a lungo, lavorate, cercate un appartamento “serio”, inizierete a percepire la vita vera che si vive qui. E l'idea che vi siete fatti all'inizio cambia abbastanza.

La prima cosa che ho capito è che l'ottima impressione che mi ha dato la Germania è dovuta all'apparato pubblico. Mentre da dove vengo io l'apparato pubblico è a ragione – tranne le lodevoli eccezioni – ritenuto improduttivo, corrotto ed inefficiente, in Germania è decisamente migliore. Sostanzialmente la Pubblica Amministrazione non conosce la corruzione endemica e onnipresente che conosciamo noi. Di conseguenza, i suoi atti non sono marcati dall'illogicità costante che si vede in Italia, dove ogni opera è costruita al fine di dare un appalto al corruttore e una bustarella al corrotto. Manca anche l'eterno spirito di ruberia che contraddistingue troppi dipendenti pubblici (chi ha fatto la leva sa benissimo di quale benzina siano pieni i serbatoi degli ufficiali; chi fa la cassiera in supermercato sa bene quale clientela si metta in coda nell'orario di ufficio) è totalmente assente.

Ne risulta un apparato statale che fornisce una serie di servizi i quali, quantomeno, si attestano su una ragionevole capacità di funzionare. Per questo treni, metro e università funzionano bene. Così come le Poste. Sono cose che si notano subito: gli uffici del comune sono aperti, almeno qualche giorno a settimana, in orari tali da favorire chi lavora; gli uffici postali più importanti chiudono anche dopo cena; eccetera eccetera.

Si può dire che il sistema pubblico tedesco, in confronto a quello italiano, sia decisamente migliore. Su una scala assoluta, direi che è si stabilisce sulla sufficienza.

L'amara sopresa invece arriva quando si parla del settore privato. Da bravo italiano, pensavo che se il pubblico funziona così, il privato deve fare faville. La sconvolgente conclusione è che il privato è, dal punto di vista dell'efficienza, a pari livello del pubblico.

Ho imparato che i tedeschi stessi definiscono la Germania Servicewüste, cioè il deserto dei rapporti con il cliente. Mi spiego: il primo impatto che avete con il settore privato è quello da cliente. Ora, in Germania il cliente è un fastidio. Giuro. In quanto cliente, voi state disturbando l'ordine perfetto dell'azienda interessata. Risultato: non vi fila di pezza nessuno. Qualunque bene vogliate, prima lo pagate e poi aspettate che l'azienda sia così gentile da farvelo avere. I tempi e i modi non sono affare che vi riguarda, né riguarda l'azienda. Solo il caso o la volontà di Dio vi recapiteranno il bene; e visto che avete disturbato, abbiate almeno la decenza di tacere. Dopo un anno qui rischiate di diventare idrofobi. Perché nessuno si interessa a voi, vi ignorano o vi trattano da bambini capricciosi. E voi schiumate dalla bocca. Nella catena che porta il bene dal produttore al consumatore i normali intralci che si verificano non vengono rimossi dal produttore in modo che il consumatore possa avere al più presto quello per cui ha pagato, ma vengono ignorati e lasciati perdere perché non svantaggiano il produttore; certo, vanno a detrimento del consumatore, ma questo non è un problema del produttore, che appunto non è il consumatore.

L'esperienza del privato dal punto di vista del lavoratore, invece, infonde in chi ci passa attraverso una fede assoluta. Perché ci vuole veramente fede per credere che qui un'attività economica non fallisca dopo due mesi. Dal capo di tutti i manager all'ultimo dei lavoratori a contratto, sono uno più lento, calmo, inamovibile dell'altro. E completamente disorganizzati. Se c'è una cosa che ho notato, è la costante disorganizzazione del lavoro, scientificamente perseguita e orgogliosamente portata avanti da tutti. La totale mancanza del concetto di ottimizzazione del lavoro, l'assenza assoluta della cognizione del rapporto costo/beneficio. La norma è prefissarsi un risultato e non considerare minimamente se ci sono i mezzi, i tempi e le risorse per farlo, e se i vantaggi offerti dal risultato superino o meno i costi di realizzazione. Alla fine si ottiene certo un risultato, ma se si analizza il modo in cui ci si è arrivati, difficilmente si pensa che ne sia valsa la pena.

In Italia ho avuto esperienza, e nemmeno tanta, di piccole e medie imprese. Tipico. Sono quelle che gli intellettualini da salotto trattano con sufficienza perché il padrone parla dialetto e perché hanno rovinato la secolare cultura della pellagra. Non come in Spagna Irlanda, dove gli intellettualini andavano a fare le vacanze (e che adesso stanno precipitando ai livelli economici dello Zimbawe). Ecco, io la capacità di lavorare che si riscontra nelle PMI qui in Germania non l'ho vista nemmeno per sbaglio al bar. Sappiate che se siete abituati a quel genere di mentalità, in Germania avreste vita ben dura. Al confronto, l'organizzazione che vige all'interno dei capannoni italiani è un gioiello di eleganza ed efficienza da far studiare nelle facoltà di economia. Non mi stupisce che tanti veneti e friulani siano diventati ricchissimi aprendo gelaterie, gente che è partita con due soldi ed ora gira in Ferrari. Vendendo gelati! Perché è ovvio che erano talmente avvantaggiati sul piano organizzativo da potersi mangiare qualsiasi tedesco facesse capolino all'orizzonte.

Probabilmente è una descrizione cui molti non crederanno. Nemmeno io ci potevo credere, ma dopo che mi sono trovato più e più volte a sbattere la testa contro il muro a causa dell'inefficienza altrui ho dovuto cambiare idea. Ho anche cercato una spiegazione e l'unica teoria che sono riuscito a formulare a riguardo è che la Germania sia da poco uscita dal socialismo. Molti pensano che i socialisti fossero quelli ad Est, soprattutto i tedeschi dell'Ovest si beano di questo pensiero. In realtà non è così. A Est erano socialisti nel senso sovietico del termine: c'era una legge positiva che imponeva il socialismo di Stato. Ad ovest invece vigeva un socialismo di fatto, mascherato da capitalismo, dove la protezione statale era talmente elevata da trascendere il campo economico ed entrare nel campo dell'ornitologia, la parte in cui la madre ingozza i pulcini per sfamarli.

Per anni a tutte le categorie di cittadini è stato garantito così tanto da far perdere loro qualsiasi stimolo a migliorare. Il lavoratore non doveva pensare a niente, ogni aspetto della vita doveva essere garantito dal cartello Stato/impresa/sindacato. Cinquant'anni di questo andazzo hanno convinto i lavoratori e i manager che fosse giusto fissare sotto la sedia i blocchi di partenza dei centometri, in modo che alle 17:30 si potesse scattare più agevolmente; hanno convinto i ragazzi che avere un lavoro è un diritto, così come avere la Golf nuova a vent'anni; hanno convinto gli studenti che avere l'università gratis è un diritto, senza tenere in considerazione cosa abbia significato l'università gratis: siccome iscriversi costa quasi niente e garantisce per ogni semestre pagato i mezzi gratuiti e l'assicurazione sanitaria, la gente si iscrive solo per avere i mezzi a un decimo del prezzo normale e l'assicurazione sanitaria pagata senza lavorare. Poiché una cosa del genere è insostenibile, le università stanno iniziando ad alzare le rette, in modo da scoraggiare almeno quelli che si iscrivono per finta (e sono davvero tanti), e così gli studenti universitari, i quali hanno un'università praticamente gratuita, ricevono ogni mese soldi dallo Stato, hanno mezzi gratuiti, alloggi a prezzo irrisorio, cinema e teatri a meno di metà prezzo cosa fanno? Occupano le facoltà per protesta e spaccano tutto, causando danni per centinaia di migliaia di euro, e si lamentano del fatto che la polizia sgomberi con la forza.

Succede poi spesso che un sacco di ragazzi vivano del sussidio di disoccupazione, perché non hanno voglia di prendere un pezzo di carta qualunque che li faccia lavorare. In Germania anche per il lavoro meno specializzato è necessario almeno un tirocinio di due o tre anni che, effettivamente, è uno sbattimento, pensando che puoi guadagnare lo stesso non facendo niente. E indovinate cosa succede? Che c'è gente di 25 anni con lo stipendio di disoccupazione. In Italia conosco un sacco di ragazzi che non avevano voglia di studiare e che hanno cominciato a lavorare presto. Hanno cominciato con poco e ora hanno la loro vita. Non saranno manager, non parleranno l'italiano alla perfezione, ma almeno hanno costruito qualcosa. Sono quelli che gli intellettualini laudatori della Spagna trattano con disprezzo, sono quelli della “dispersione scolastica” che bisogna combattere con l'obbligo di studiare fino a 30 anni. Penso che se queste persone avessero avuto tutto il sostegno economico che c'è qui in Germania, non avremmo mai avuto niente di quello che abbiamo. E penso che se non lavori e non studi e non fai niente fino ai 30, non troverai mai nessuno che ti assuma, nemmeno per scopare i pavimenti, e sarai costretto al sussidio per sempre. Cosa che appunto sta succedendo da queste parti.

È evidente però che la pacchia è finita e da qualche tempo. Non è la crisi del 2008 a farsi sentire, è un sistema inefficiente che ha abituato ad uno stile di vita insostenibile. Le protezioni statali stanno cadendo ad una ad una e gli spazi di manovra per chi pensa di appoggiare le chiappe su una sedia e non fare niente fino ai 60 anni si fanno sempre più stretti. Fino ad ora ci si poteva permettere di fregarsene del cliente, perché di clienti ce n'erano tanti e danarosi. Ma quando, fra qualche tempo, di clienti ce ne saranno pochi e poveri, o cominceranno a leccar loro le chiappe mostrando entusiasmo, oppure chiuderanno. In tutta onestà, se penso a come sono stato trattato da consumatore in questi anni, mi convinco sempre più di affidarmi ai colossi tipo Ikea, Amazon, Ebay nella speranza di far fallire tutti i galletti che mi hanno guardato con il sopracciglio alzato, trattandomi da straccione perché chiedevo il prezzo di quello che compravo. E spero che tutti quelli che occupano dei posti di lavoro non facendo niente da mane a sera vengano presto licenziati, per lasciare posto a quelli – e sono tanti – che di voglia di lavorare bene ne hanno ed in quantità.

Intervention

Sebbene il titolo possa far pensare ad una puntata di How I Met Your Mother, la questione è un'altra. Vorrei chiedere ai miei esperti lettori se conoscono un modo per impedirmi di accedere ad internet oltre una soglia di tempo determinata. In pratica vorrei sapere se sia possibile impedire la navigazione se non per una soglia di tempo predeterminata, oltre la quale scatta il blocco automatico.

Poiché è evidente che la mia forza di volontà non è sufficiente, devo trovare un modo per impedirmi di stare attaccato alla rete tutto il tempo, ma le mie conoscenze tecniche sono indaguate allo scopo. La condizione sta scivolando nel patologico: ormai non gioco più ai videogiochi pur di navigare. Probabilmente metà delle cose che conosco di Ubuntu le so perché navigare nel forum è una buona scusa per stare in internet (Linux è così difficile che devo passare giorni e giorni sul forum per capire come funzionano le cose; non è mica colpa mia).

Vanno bene anche consigli su come eventualmente siete usciti dal tunnel voi, ma tanto so già che non funzioneranno, ahimé.

L'almanacco del millennio dopo

Stavo leggiucchiando Cracked.com quando mi sono reso conto che stiamo vivendo un periodo storico particolare. In pratica è passato abbastanza tempo da quando è nata la fantascienza da fare di noi gli uomini del futuro. Viviamo in quel futuro che gli uomini di qualche decennio fa potevano solo immaginare nella fantasia.

Non sono un esperto di fantascienza. Mi pare però che il termine inglese science fiction si più adatto, perché una “scienza di fantasia” è una scienza che non è scienza, mentre una “narrativa di carattere scientifico” rende più l'idea degli intenti degli autori.

Intanto la cosa che trovo interessante è che noi stiamo vivendo il futuro sci-fi a causa dell'effetto “cifra tonda”: se per un qualche motivo il calendario utilizzato in Europa e quindi nelle Americhe non iniziasse dal consolato di Gaio Cesare e Lucio Emilio Paolo oggi saremo magari nel 2763 o giù di lì; come pure se avesse prevalso il calendario ebraico o musulmano, oggi saremmo nel 5770 o nel 1431; e non ci avrebbe filato nessuno. Noi ci ricordiamo per caso cosa sia successo di particolare nel 1632? No (per la cronaca: Willy l'Orbo disegna la sua mappa). Invece nel giro di pochi anni ci siamo trovati prima nel 2000 e poi nel 2010. Ma vogliamo mettere? Non vuol dire niente, ma fa tutto un altro effetto.

L'effetto “cifra tonda” però è stato enormemente amplificato dal fatto che la scienza è nata poco prima dell'anno a cifra tonda. Senza la scienza non potrebbe esistere la fantascienza, che si è trovata ad avere materiale a non finire su cui scrivere proprio a ridosso della cifra tonda. Quando nasce la science fiction si poteva intravedere il 2000 che faceva capolino all'orizzonte, una data troppo lontana per sentirla vicina, ma non così tanto da non poterla immaginare. Il suo valore simbolico era troppo forte per rimanere inascoltato: non cambia solo il decennio, non cambia solo il secolo, cambia l'intero millennio e per di più non siamo nel medioevo quando morivamo di paura, ma siamo felici perché il mondo stava divendeno ogni giorno un posto migliore!

Eccoci qua, allora. Noi uomini del futuro possiamo guardare indietro e dare valutare serenamente cosa pensavano avremmo combinato noi uomini del futuro. È bello notare come non abbiano azzeccato quasi niente. Da un lato fa tenerezza vedere come il futuro rappresentato nel passato ci appaia più simile a quel passato che non al nostro presente, dall'altro salta all'occhio come la fantascienza rappresenti soprattutto i desideri e le paure dei contemporanei in relazione al presente e come sia quindi un ottimo modo per investigare le autorappresentazioni di un determinato periodo storico.

Confesso di non essere un grandissimo amante della sci-fi, proprio per questi motivi. E soprattutto perché mi pare che non comprenda una delle caratteristiche basilari della scienza e della tecnologia moderne: che esse sono nate e si sono sviluppate per risolvere problemi concreti e reali che affliggevano l'umanità. Certo, la sete di conoscenza è un punto fondamentale, ma senza il desiderio di migliorare la propria condizione, l'essere umano non produrrebbe mai tecnologia ad altissimi livelli.

Prendo un esempio classico dell'immaginario fantascientifico: nel 2010 le città saranno intasate di traffico aereo privato e la auto saranno sostituite da piccoli aeromobili a quattro posti che si muovono a decine di metri dal suolo. È sotto gli occhi di tutti che non è andata così, ma perché? Perché non ha alcun senso fare macchine volanti per il trasporto urbano individuale, non risponde ad alcuna esigenza reale. Quale scopo ha creare un velivolo, che consuma moltissimo, per usarlo allo stesso modo di un'automobile, come in Blade Runner? Non dico che non sarebbe divertente per la prima settimana, ma poi? Non è come l'aereo, che elimina tutte le difficoltà di viaggiare via terra o via mare e in più a velocità incredibili.

Però l'idea di avere tutti un bel velivolo a decollo verticale con cui andare a fare la spesa richiama alla mente una tecnologia avanzatissima di un mondo dove in realtà nessuno fa cose banali come andare al supermercato o portare i figli a scuola, ma si guadagna da vivere andando a caccia di robot ribelli, infettando le reti informatiche, vendendo ricordi di vacanze fasulle o viaggiando nel tempo per difendere l'umanità.

Come tutti quelli che cercano di predirre il futuro, anche la sci-fi non predice niente, ma palesa i timori e le speranze di chi la crea. E così, quando leggo le varie previsioni per questo 2010, non mi aspetto certo di sapere in anticipo cosa accadrà; mi limito a curiosare nell'inconscio di chi le formula per scoprirne le paure e i desideri.