D'umanisti e di precari/2

Carrellata semiseria di ricordi di poco conto sui giovani precari, scritta da un giovane quasi precario. Parte seconda.

Nel volgere di qualche decennio la cultura umanistica è diventata – nell'immaginario collettivo – la sorella disgraziata nella famiglia degli studi. Probabilmente ciò è dovuto a due fattori incrociantisi: essa è stata tradizionalmente patrimonio delle classi sociali più elevate, che l'hanno sempre tenuta gelosamente al riparo da mani impure. Nel frattempo, le classi sociali un tempo inferiori sono uscite da tale condizione e sono arrivate alla “stanza dei bottoni”, nel senso che il mondo contemporaneo non è più retto da borghesi col cappello a cilindro che discutono del De bello gallico, mentre progettano la prossima ferrovia e finanziano la deportazione di qualche decina di migliaia di africani verso le Americhe. Oggidì il mondo è mandato avanti dagli scienziati e dai tecnici, da coloro che sanno creare e gestire le tecnologie moderne e che, per la maggior parte, non hanno avuto la formazione umanistica destinata alla vecchia classe dirigente.

Mi pare che in Italia il mondo accademico abbia compreso di aver perso l'avito prestigio e che stia cercando di riaggiustare il tiro per ridare dignità alle materie umanistiche. Tuttavia esiste una forte tendenza a raggiungere questo obiettivo attraverso mezzi illeciti, cercando di spacciare i corsi umanistici per quello che non sono, e cioè discipline scientifiche. Il modo più semplice è cambiare loro nome: una volta erano “Lettere classiche”, oggi sono “Scienze dell'Antichità”; una volta erano “Lettere Moderne”, ora sono “Scienze del testo letterario”.

Ma questo non è un male, in fondo un po' di belletto non può che render più gradevole il modo in cui si presentano. I dubbi sorgono quando il docente (che purtroppo è il giudice assoluto del proprio operato) cerca anche di portare il contenuto della propria disciplina più vicino a quello dei colleghi fisici e matematici. Tipicamente, ciò passa per il ricorso ai numeri. I numeri – si sa – sono oggettivi e scientifici, ed un foglio pieno di cifre è per forza scientifico. Inoltre, le discipline scientifiche sono anche difficili (perché hanno i numeri) quindi il numero è la strada obbligata per rendere le materie umanistiche scientifiche, oggettive e difficili.

Per esempio, se siete un docente di storia, i vostri esami consteranno di una sequela incredibile di cifre da snocciolare. Liste di eventi da datare, numero di membri del consiglio del principe di turno, numero di catalogo dei reperti degli scavi del sito paleoveneto di Cazzago (VE): c'è solo l'imbrazzo della scelta. La quantità di numeri che si può chiedere è strabiliante e non c'è nemmeno il rischio che ci siano due compiti uguali. Almeno l'esame è difficile? Certo che lo è. Immagazzinare una lunga serie di numeri slegati da qualsiasi significato è difficile, nel senso che ci vuole tempo e dedizione. In più, il docente obbliga a studiare un paio di libri che non si occupano di fornire liste di numeri, ma cercano di spiegare cosa sia successo nel dato periodo, quindi il giovane umanista studia quello che non gli verrà chiesto, mentre gli verrà chiesto quello che non gli è stato spiegato. Comunque, questo genere di difficoltà non favorisce lo studioso, ma lo sciocco. Ora, pensiamo di rimanere 12 ore in una stanza senza fare nulla. Nulla di nulla. Non si suda, non ci si stanca. È difficile passare 12 ore a non far niente? Molto. Ecco, per una mente normodotata imparare a memoria la catalogazione dei cocci di una chiatta vichinga equivale a non fare niente. In questo sistema lo sciocco è naturalmente avvantaggiato, perché è un esercizio che richiede di mettere a tacere il cervello. Ed infatti negli ultimi anni che ho passato io all'università era normale tenere i libri di storia chiusi e imparare a memoria la cronologia che di solito viene messa prima della quarta di copertina.

In questo modo si opera una selezione al contrario che avvantaggia i mediocri ed espelle i migliori: nessuna mente brillante ha voglia di continuare gli studi dopo la laurea in queste condizioni. Mentre le menti ristrette, incapaci di creare connessioni fra eventi e non adatte a mettere in discussione i dati forniti trovano l'humus adatto a proliferare. La cosa si notava particolarmente quando qualche novello dottorando o dottore veniva a tenere seminari o lezioni: anziché portare aria fresca e fornire stimoli a guardare le cose sotto profili diversi, questi giovanotti erano più noiosi dei vecchi docenti, che almeno avevano il pregio non indifferente di essere persone colte e con qualcosa da dire.

Come se non bastasse, alla fine della lunga serie di esami passati imparando a memoria quattro paginette di numeri, bisogna anche scrivere la tesi. Normalmente per un umanista la tesi dovrebbe essere una passeggiata: in fondo ha passato gli ultimi anni della sua vita a leggere libri di storia o critica letteraria o quello che è, sarà in grado di fare lo stesso no? No, perché nessuno gli ha mai chiesto di comprendere quei libri, ma di imparare a memoria delle cifre. Quindi scatta il panico. E le possibilità sono due: il professore buono e il professore cattivo. Il primo è quello che raccoglie attorno a sé numerosi adepti e li usa per le proprie pubblicazioni: c'è bisogno di catalogare i rinvenimenti di un sito oppure di trascrivere un manoscritto medievale oppure digitalizzare la biblioteca del dipartimento? Non c'è problema, lo facciamo fare a chi si deve laureare, gli facciamo scrivere quello che serve, gli diciamo che è una tesi, gli diamo 110, raccogliamo il materiale, lo pubblichiamo a nome nostro ed oplà, ecco che abbiamo il nostro articolo per il prossimo seminario di studi antichi, o per il prossimo numero di “Filologia oggi”, o per la proposta di finanziamento dell'informatizzazione della biblioteca, con annessi fondi. Tanto ai ragazzi che gli frega, quelli finiscono al call centre comunque.

Il professore cattivo invece è quello vecchio stampo. Fa 6 ore di lezione in un semestre, non ha idea di cosa sia successo nell'università italiana negli ultimi 30 anni e come tesi laurea pretende un lavoro in due tomi da 300 pagine che sia la base necessaria a sviluppare il dottorato di ricerca. Che potrebbe anche essere interessante, se non fosse che la borsa di studio per quel dottorato si sa già a chi andrà a finire. E non siete voi.

Oltre a questo, va ricordato che il lavoro è un corollario della legge morale che serve a definire socialmente il valore di un individuo, secondo il principio “più si lavora, più ci si eleva moralmente”. Quindi il docente vi chiederà sempre quanto ci avete messo a preparare un esame. Prima regola, mentire. Allargare. Dilatare. Tre quattro cinque mesi! Quando il mio correlatore mi chiese quanti mesi avessi impiegato a scrivere la mia tesi ed io potei esibire soltanto un misero “9”, mi guardò con compassione e, affranto dal dolore, non disse niente (salvo indicare quali articoli da lui scritti andassero messi in bibliografia). È chiaro che questo discorso andava bene fino a qualche anno fa, quando il vecchio ordinamento era ancora un macigno che pesava sull'università. Magari adesso è diverso.

La conseguenza è che i giovani studiosi assimilano questa mentalità e allora intenzionalmente dilatano il loro periodo di studio per “imparare meglio”. C'è questa idea tra gli umanisti che per sapere di più bisogna metterci tanto tempo. Più tempo, più sapere. Se ci mettete 10 anni a laurearvi, vuol dire che amavate davvero lo studio e conoscete alla perfezione la vostra materia.

Il quadretto non è idilliaco. E nemmeno bucolico, per dirla tutta. Una formazione di questo tipo non può che generare mostri. Mostri tagliati fuori dalla società, giocoforza destinati al precariato perenne, anche se studiavano molto e avevano tutti 30 e lode. Ed è significativo, ma non rassicurante, il fatto che molte persone che hanno successo nella vita, siano sempre state ai margini della vita di studi. Significa che il percorso formativo intralcia i più dotati, blocca i “normali”, manda avanti i mediocri; non stupisce che i furbi si facciano strada e i normali emigrino all'estero.

(continua)

(prima parte)

25 commenti:

falecius ha detto...

Va detto però anche che in effetti molte discipline umanistiche, e in particolare le discipline storiche e sociologiche, fanno un uso crescente di metodi quantitativi e lavorano spesso in modi più vicini a quelli delle scienze rispetto a qualche tempo fa. L'archeologia e le discipline collegate, in particolare, fanno un uso sempre più importante di strumenti scientifici raffinati, ormai da decenni (basta pensare al ruolo delle datazioni al radiocarbonio, o contributi come quelli della palinologia e della dendrocronoligia).
Anche la linguistica non può più rinunciare a contributi delle neuroscienze.
In campi meno strettamente legati a questo tipo di approcci, l'analisi quantitativa, ad esempio, delle frequenze lessicali può essere uno strumento utile in letteratura; un mio professore ha fatto cose interessanti sulla poesia persiana con questo metodo, che richiede ovviamente strumenti informatici abbastanza raffinati (anche se non certo al livello di cose come la chimica organica).
L'uso di metodi delle scienze esatte in geografia e nelle discipline connesse è fin troppo ovvio.

Poi si può dire che tutto ciò pertiene alle "scienze sociali" più che alle discipline umanistiche in senso stretto che si ridurrebbero quindi solo alle lettere e alla filologia.
Ma anche lì, la "scienza" è in agguato.

Unknown ha detto...

Ma infatti io nel post precedente ho detto che gli studi umanistici non sono più quelli di 100 anni fa e che hanno accolto una metodologia scientifica, pur non potendo definirsi scienze esatte.

Il problema è quando non si è capaci di fare una cosa del genere, ma si vuole passare per scienziati a tutti i costi.

falecius ha detto...

Naturalmente sono d'accordo con te. Ed è ovvio che memorizzare date (per quanto sia una parte necessaria, ma NON SUFFICIENTE della conoscenza storica) non ha nulla di "scientifico" o di "quantitativo".
Peraltro il fatto che indichiamo le date con dei numeri è solo convenzionale, sebbene molto comodo. Si potrebbero infatti esprimere le date in termini tipo "giorno dell'Elefante della luna del Raccolto dell'anno dell'Unicorno nel secolo del Babau" eccetera.

lamb-O ha detto...

Che bello, in questo post ci sono un paio di scuse con cui posso giustificarmi con me stesso del fatto che non ho mai preso un 30 (da umanista!) e che ho deciso di fermarmi alla laurea breve! =D

Non funzioneranno, ma è bello sapere che ci sono, ecco.

falecius ha detto...

Ti segnalo questa cosa:

http://www.repubblica.it/scuola/2010/02/14/news/iscrizioni_universita-2297843/


che come articolo in sé trovo delirante ("aule semivuote"???? In quale universo parallelo?) e con un impianto concettuale a me incomprensibile, ma che che a livello di "dati" potrebbe essere di qualche interesse per il tuo discorso.

falecius ha detto...

Tommy, ti chiedo scusa. Ho riletto la cosa (mi vergogno a chiamarla "articolo") che o linkato sopra, e, oltre al fatto che è scritto in una lingua che somiglia solo vagamente all'italiano, non dice nemmeno alcunché di realmente sensato.
Cancella pure il mio commento precedente. Oppure apri il link e ridi/piangi, fatti tuoi.

lamb-O ha detto...

AHAHAHAHAHAH, un altro po' e le aule saranno semivuote??? Ci vorrebbe *almeno* un bel -40% per non avere più gente seduta per terra, altroché!

Dai, fa cagare e non significa nulla ma fa ridere =)

Unknown ha detto...

ROTLF, be' io il link lo lascio, scusa: in un solo articolo trovo conferma al mio post sul giornalismo e ai miei post sull'università degli umanisti.

Com'è brutto aver ragione... :-D

Basta Con La Droga ha detto...

A metterla così, mi viene voglia di integrare la mia laurea di vecchio ordinamento con un paio di esami di latino, un paio di esami di greco, un paio di esami di letteratura italiana e guadagnarmi, in questo modo (dato che mi sono laureato ben prima del 2001), un'altra classe di concorso.

Quando ero uno studentesso (cit.) fuori-sede io, ho dovuto sudare il pezzo di carta umanistico: mi hanno fatto studiare la "Scienza Della Logica" di Hegel (e ricordo che mentre giravo pagina dopo pagina, pensavo "Sono fottuto..."), le tre "Critiche" di Kant nella loro interezza e agli esami non si scherzava un cazzo.

Insomma, se adesso è tutto così facile e "in scioltezza", be' io integro. E anche alla svelta.

Unknown ha detto...

BCLD: be' guarda, penso che non sia impossibile, specie se ti informi su chi sia il docente e che programmi chiede.

davide l. malesi ha detto...

La situazione, in Italia, è quella che dici. Però alcuni studiosi umanisti di vaglia ci sono: gente come Eco, Canfora, Portelli, Pavoni... capaci, alla bisogna, di far valere le cifre, ma non fermarsi a quello (penso al lavoro immenso, la cui portata internazionale è ben riconosciuta, fatto da Portelli sulla storia orale; o a quello di Eco sulla narratologia).

Certo, il fatto che i libri di maggior rilievo sulle culture antiche mediterranee degli ultimi anni siano stati scritti da anglosassoni (Victor Davis Hanson, Barry Strauss), fa un po' tristezza. Ma non è cosa nuova: già era successo che dovesse venire uno straniero (Denis Mack Smith) a raccontarci i fatti del nostro Risorgimento.

Odysseus_Nauticus ha detto...

Interessantissimi questi due post, aspetto il prossimo. :)

Posso considerarmi fortunato? Parlo sempre dell'ambito umanistico.

Ho avuto modo di notare il fenomeno del "premiamo lo scemo", ma più spesso nella forma "non esistono voti intermedi" che nella forma "sa più date, 30 e lode".

Ovvero: mi sembra che in moltissimi esami non venga più accettata la nozione di "voto compreso tra il 20 e il 25", il tutto per una questione di "premiare l'impegno". Il 18 e il 19 sono voti umilianti, il 24 e il 25 premiano l'impegno, dal 26 in su, man mano che ci si avvicina al 30 e lode (con le dovute differenze da esame ad esame, da docente a docente) si ha una sempre maggiore definizione del grado di competenza. I voti dal 20 al 24, spesso, non vengono nemmeno immaginati, né dai docenti, né dagli studenti; più di una volta ho assistito a scene in cui docenti chiedevano allo studente di turno di ritornare "perché altrimenti dovrei metterle un voto basso, e mi dispiacerebbe, visto che ha studiato e si vede".

Diciamo che ho osservato una situazione leggermente migliore rispetto a quella che descrivi, ma penso che si tratti della declinazione locale di un problema in ogni caso allarmante.

Il punto è che si fraintende il concetto di "democratizzazione della cultura". Ora, in democrazia esistono dei requisiti per partecipare: per fare un esempio, bisogna aver raggiunto la maggiore età, fissata a 18 anni, per poter avere diritto al voto. Lo stesso principio non viene invece applicato alla cultura, dove il requisito potrebbe essere l'aver acquisito una serie di conoscenze di base necessarie allo studio della disciplina: un requisito da rispettare senza se e senza ma.

Ci sarebbero forse altre considerazioni da allegare, ma mi fermo prima che vi scoppi l'aorta per la noia. :D

lamb-O ha detto...

Io ho preso tre 21 e due 23... che razza di bestia strana sono? ò_O

Unknown ha detto...

@ Davide: sicuramente esistono le eccezioni in meglio (siamo il Paese delle eccezioni eccellenti), però se ci pensi siamo l'unico Paese dove l'istruzione classica è fornita dai 14 anni gratuitamente e sforniamo un Canfora, mentre all'estero, dove studiano greco credo per i primi tre anni di università e basta, producono studi in grande quantità.

* * *

@ Odysseus: guarda, uno dei miei docenti di greco non dava mai voti sotto il 27. Il problema è che era uno dei pochi con cui il voto te lo dovevi meritare tutto. In pratica o imparavi almeno da 27 o più, oppure cambiavi indirizzo.

Per la democrazia della cultura, no no e poi no :-D

Nel processo formativo non si è alla pari, perché lo studente sa meno, per definizione, del docente. Nel momento in cui sono alla pari, e quindi potrebbero essere democratici, non sono più studente e docente. Formazione e democrazia sono entità mutualmente escludenti.

davide l.malesi ha detto...

Suvvia, Canfora non è solo: nel campo degli studi sulla romanità bisogna contare perlomeno anche Alessandro Barbero e Andrea Giardina, autori di saggi tradotti un po' ovunque e largamente apprezzati...

Quello che mi preoccupa è l'età di 'sti tizi (sono tre esempi soli, ma emblematici): Canfora è del '42, Giardina del '49, Barbero del '59 (rispetto agli altri due, un pischello). Studiosi illustri in altri campi umanistici sono pure loro stagionatelli: Claudio Pavone del '20, Alessandro Portelli del '42... Alberto Abruzzese del '42 pure lui, Massimo Cacciari del '44...

E i nati dopo gli anni 60? Siamo un Paese che sta finendo, sul piano accademico, a non produrre più una cippa?

(Mi sa di sì se mio cugino Eric Mandolesi, laureato in fisica alla Sapienza con ottimi voti, per fare ricerca in campo sismologico - di cui l'Italia avrebbe, forse, bisogno - si è dovuto trasferire in Irlanda, al Dublin Institute for Advanced Studies: farà quest'anno le sue prime pubblicazioni serie, che verranno considerate a tutti gli effetti studi IRLANDESI, perché le ricerche accademiche vengono considerate per la nazionalità dell'ente, non dell'autore)

lamb-O ha detto...

Beh, Davide, sono sempre stato una persona troppo titubante e troppo poco risoluta, ma sul prendere decisioni in negativo (cioè, relative a che cosa *non* fare) sempre rapido ed efficiente.
E uno dei miei primi pensieri di universitario è stato "carriera accademica? Prefiero la muerte!".

E come me migliaia di altri, ogni anno. Non si può mica aspettare decenni che un barone muoia per poi mettersi a sgomitare con altri ambiziosi per la cattedra, c'è pure una vita da vivere.
Questo in ambito umanistico, quello che conosco.

Unknown ha detto...

@ davide: ovvio che la mia era un'iperbole... ma neanche tanto, visto che, come giustamente fai notare, il più giovane ha 60 anni.

Non mi stupisce però: ho udito con le mie orecchie persone che si sono rifiutate di pubblicare un proprio lavoro perché il baronetto di turno voleva che scrivessero quello che diceva lui. Siamo alla follia.

Poi, inutile girarci intorno: se Canfora - indiscutibilmente uno dei migliori - ha tutta la famiglia che fa il docente ordinario nella sua università, dove vogliamo finire?

* * *

@ lamb-O: piuttosto mi prostituisco: è lo stesso lavoro ma almeno pagato decentemente.

Odysseus_Nauticus ha detto...

@ davide: sì, a dare un'occhiata - soprattutto fra gli antichisti - l'età media è, minimo, corrispondente all'età dei codici che studiano.

@ tommy: parlavo esclusivamente della possibilità di accesso. Va garantito l'accesso a tutti, ma devono esistere delle limitazioni come esistono nella partecipazione alle strutture politiche. Non si fa votare un bambino di tre anni. Non si permette l'iscrizione a lettere classiche senza un'adeguata valutazione del livello di partenza in latino e greco. ;)

davide l. malesi ha detto...

@tommy, la questione del fatto che gli accademici/intellettuali/artisti si sposano tra loro, si riproducono tra di loro, e generano altri accademici/intellettuali/artisti però è un po' più complessa: voglio dire, non è che Anna Banti è diventata una persona illustre perché stava con Roberto Longhi, o Elsa de' Giorgi per la sua storia con Italo Calvino, o Leonetta Cecchi in quanto moglie di Emilio, o Anna Proclemer per aver sposato Vitaliano Brancati (anche perché poi la dava comunque a tutti, da Gassman a Gadda...): avrebbero fatto strada, tutte, pure per conto proprio. Anzi, certe erano più illustri dei loro compagni maschi, "I coetanei" di Elsa de' Giorgi era un best-seller quando ancora Calvino lo leggevano in pochi. Stesso discorso per i figli: non è che Gian Lorenzo Bernini fosse un raccomandato incapace e cialtrone che però ramazzava commesse favolose da papi, granduchi e principi solo in quanto figlio di papà Pietro Bernini. Senza dubbio qualche scorciatoia l'avrà trovata, avendo un padre illustre che lavorava nell'ambiente, ma si deve ammettere che poi se la è cavata benino anche senza il babbo.

Il fenomeno detto "risonanza creativa" e quello dell'imprinting culturale esistono. Che poi in Italia imperi il cosiddetto familismo amorale, per cui ottengono posti di rilievo anche - e forse soprattutto - persone del tutto incompetenti, in quanto figli mogli mariti nipoti parenti amici etc. di Tizio o Tizia, è purtroppo un dato di datto culturale.

@lamb-O, esistono anche i Paesi stranieri. A parte il caso di mio cugino che è studioso di scienza, in campo umanistico invece, ho un caro amico che è andato a fare il lecturer di letteratura italiana alla Columbia University di NY, e c'è rimasto trovandosi benissimo.

@odysseus, purtroppo non vedo soluzioni a breve termine.

lamb-O ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
lamb-O ha detto...

> esistono anche i Paesi stranieri.

E quindi nulla di tutto quello che ci potrebbe fare un accademico italiano verrebbe accreditato al sistema-Italia. Siamo sempre lì.
Poi io ho rinunciato alla carriera accademica anche per altri motivi, beninteso (un'amica di mia madre di NY tempo fa insisteva perché facessi "lectures" pure io, non è che abbia lagnanze da fare); ma quando mi trovai per la prima volta a prenderla in considerazione, non potei che rispondermi così.

P.S. Scusa Tommy, il commento cancellato di prima è mio, i contenuti erano più o meno gli stessi di questo ^^'

davide l. malesi ha detto...

@lamb-O, non fraintendermi, pliz. La mia frase "esistono anche i Paesi stranieri" è legata alla aspettativa che tu, se non interpreto male, hai avuto fino a un dato momento: una carriera accademica, ciò che presume un sistema-Paese efficiente e bene organizzato nelle sue istituzioni universitarie, aperte a - anzi, organizzate in funzione di - un necessario ricambio generazionale (senza il quale i vecchi baroni a casa non ci vanno).

Bene, ho controllato or ora nel secondo Diario minimo di Eco: le Bustine di Minerva in cui lui faceva dei ritratti penosi dello stato in cui versava l'università italiana le trovi lì, con date annesse. La più mesta e indicativa dell'indirizzo rovinoso preso dal mondo universitario in Italia, quello della burocratizzazione totale, della sclerocrazia e della paralisi ("Come fare un inventario") è dell'86. Ora, "L'Espresso" non era esattamente un samizdat oscuro e ciclostilato, circolante in poche copie, tipo quelli che ho visto al Museo dei Libri Proibiti a Praga, oggetto
da celarsi sotto la giacca per evitare le repressioni della polizia politica: vendeva allora più di adesso, e lo leggeva (sbandierandolo, peraltro) un sacco di gente che si diceva interessata al cambiamento sociale (o almeno, lo comprava: ma la Bustina di Minerva credo la leggessero tutti, pure quelli che acquistavano L'Espresso solo per portarselo sottobraccio e potersi dire di sinistra). La situazione dell'università italiana, la sua inevitabile deriva, sta lì fotografata in bella mostra, sotto gli occhi di chi doveva preoccuparsene,cioè chi si diceva progressista: che hanno fatto costoro, in 24 anni, per cambiare le cose? Quasi un cazzo, mi pare. La Pantera, l'Onda, qualche protesta velleitaria in larga misura? Cazzate. Io l'università non l'ho fatta, però conosco un sacco di gente che invece sì, e non mi risulta che nessuno si sia mai messo a organizzare una protesta dura, senza sconti, a oltranza e con obiettivi chiari (stile mondo operaio nell'autunno caldo a fine anni 60, per dire). Si vede che l'università italiana, così com'era, non vi faceva poi così schifo, altrimenti avreste detto, tutti assieme, alle classi egemoni: "O ci date quello che vogliamo, meritocrazia ricambio generazionale etc., o vi facciamo il culo a strisce, non vi facciamo vivere più").

davide l. malesi ha detto...

(continua da commento precedente)

Vedi, è questione di priorità. Mio nonno, Giuseppe Scuteri-De Francisci, per cambiare la società in cui era vissuto e ritrovarsi con un sistema-Paese diverso, ha passato un anno e mezzo alla macchia a tendere imboscate, lanciare bombe, sparare con lo Sten, fucilare gente rischiando a sua volta di essere fucilato se lo beccavano i nemici, con una taglia sulla testa e ricercato da sei polizie, una delle quali era la simpatica Gestapo. Il babbo del marito di mia zia, tale Mariano Mandolesi, ha fatto cose tipo travestirsi da soldato nazi per espugnare un carcere militare - e non è una sceneggiatura di Tarantino ma un fatto vero, il resoconto è qui

http://digilander.libero.it/CentroSantaMarina/Baldenich.htm

E' che loro, gente tipo mio nonno o zio Mariano, si son trovati in una situazione che proprio non gli stava bene, al che han detto: "A costo di rimetterci la pelle, le cose vanno cambiate. Punto".

Si tratta di esempi estremi, lo so, non sto dicendo che sareste dovuti passare alla lotta armata: ma serve per farti capire che a noi (intesi come società, non so cosa abbia fatto tu di persona né mi permetterei di giudicarti, pure se ti conoscessi), cambiare il sistema-Paese in cui siamo cresciuti, università inclusa, non interessava fino in fondo, non abbastanza. Tant'è che non lo abbiamo fatto. Ci siamo fatti, mediamente, un discreto pacco di cazzi nostri. Ora, visto che l'andazzo non era e non è un mistero, chi era a dover cambiare le cose, dimmi? Un deus ex machina calato dall'alto, come in una tragedia di Euripide?

Perciò, mi pare naturale che se uno cerca cose che a casa sua non ci sono, né si sente di farsi il mazzo e battersi per averle lì, il solo modo di ottenerle sia andare altrove. Per questo ho citato l'emigrazione come soluzione ovvia.

Unknown ha detto...

Davide, c'è da dire una cosa però: per vent'anni nessuno si è dato alla macchia. Hanno cominciato a prendere la via dei monti quando il potere era allo sbando. Non dico che abbiano fatto male, c'era da decidere da che parte stare e hanno scelto, ma il fascismo era già bello che caduto e non per mano loro. Personalmente hanno rischiato grosso, ma storicamente e politicamente l'indirizzo era già segnato.

Per quanto riguarda l'università, io - come penso gli altri - scrivo queste cose dopo averla finita da un pochino e da persona adulta.

Ma a 19 anni che ne sapevo del mondo? Mica ho passato gli anni di studio analizzando serenamente quello che mi succedeva attorno. Ora, col senno di poi, mi è facile vedere tutto quello che non andava, ma allora no.

Forse è stata una mia mancanza, forse avrei potuto vedere meglio allora, non so. Il fatto è che un sistema formativo non può essere regolato da chi deve essere formato.

davide l. malesi ha detto...

@tommy, "hanno cominciato a prendere la via dei monti quando il potere era allo sbando": quello fascista senza dubbio, quello delle truppe germaniche in Italia no, anzi. Mio nonno diceva spesso, lui che buona parte della lotta partigiana l'ha fatta nel 45mo Volontari della Libertà - formazione regolare dell'esercito italiano post-9 giugno del '44, anche se operante "dietro le linee", che ha avuto la sua buona dose di scontri con Wehrmacht e SS - che i tedeschi è gente seria, con la quale c'è poco da scherzare. Ricordo un passaggio memorabile di un libro di Nuto Revelli, "La guerra dei poveri", in cui l'autore si stupisce grandemente di una azione in cui l'ufficiale tedesco al comando delle truppe che lui e i suoi stanno affrontando, fa un errore tattico: era la prima volta che gli capitava di vedere una cosa del genere.

(ad ogni modo, la lotta clandestina al fascismo prende le mosse ben prima del '43: se leggi qua

http://digilander.libero.it/CentroSantaMarina/carlo.htm

vedrai che mio zio Mariano già nel '35 progettava un attentato a Mussolini, e poco ci mancò che non lo mettesse in atto.

Comunque l'esempio della Resistenza ci ha portato fuori strada. Sul sistema formativo, a mio parare, la questione è più sfumata: a regolarlo non possono essere quelli che debbono essere formati, ma ad indirizzarlo secondo le loro aspettative, sì. Per questo era forse più calzante l'esempio della lotta operaio nel cosiddetto autunno caldo: non è che la legislazione sul lavoro possa essere fatta dall'operaio o dall'impiegato-tipo (che sarebbe capacissimo, qua, di mettersi un orario settimanale di 20 ore pagate come fossero 40, 90 giorni di ferie l'anno, col diritto di convocare ballerine di lap dance in ufficio, marijuana gratis ai tornelli e jus primae noctis su tutte le nuove colleghe più carine). Ma la trattativa sindacale, cioè nel caso dei contratti di lavoro la lotta per cambiare le condizioni di lavoro, qualora risultino insoddisfacenti per i più, chi altro dovrebbe farla se non i diretti interessati?