Spendere, risparmiare o boicottare? - 2 parte

Per chi è d'accordo sul piano teorico che si stia vivendo un periodo che non è proprio il massimo e che ci sia bisogno di cambiare le cose anche radicalmente, la domanda più naturale è: “sì, tu hai ragione in teoria, ma in pratica cosa si fa?”

Domanda che mi sono posto a lungo e che continuo a pormi, perché non ho una risposta. Cerco però di analizzare la situazione in maniera razionale.

Considerando la realtà secondo il principio di causa ed effetto, la soluzione sarebbe la rivolta armata. Grazie alla rete, sarebbe possibile organizzarsi, coordinarsi e radunare forze a sufficienza, in modo da poter contrastare il monopolio della forza, che è uno dei cardini dello Stato moderno. Sul campo, il risultato sarebbe il seguente:

Quindi, a meno che l'asso nella manica non sia far morire dal ridere l'avversario, non vedo la rivolta armata come una soluzione utile allo scopo. A nessuno scopo, se è per questo.

Che in realtà bisogna pensarci bene prima di mettersi a cambiare le cose. Bisogna sapere cosa si vuole e soprattutto cosa andrà a sostituire il presente. Tradizionalmente siamo stati abituati ad avere le idee chiare. Una volta anche il più improbabile dei rivoluzionari aveva in mente come far funzionare il mondo a venire, a prescindere dalla giustezza o meno delle sue idee. Era l'epoca in cui esistevano le ideologie, un termine che oggi si ripudia con vergogna, ma che ha fatto compagnia alla vita di molti. Non è certo il caso di rimpiangere quei tempi, però in effetti pare che nella gran furia di buttare via le ideologie, ci si sia dimenticati sia di buttare via anche chi quelle ideologie propagandava, sia di sostituirle con qualcosa di meglio.

Il non aver buttato via le persone ci dovrebbe mettere in guardia da molti cosiddetti militanti e dalla classe dirigente che essi scelgono. Se c'è gente che per anni è stata iscritta al PCI, o alla DC, o ai Radicali e che oggi milita per idee del tutto contrapposte, significa che hanno mentito nel passato o stanno mentendo ora. O hanno sempre mentito e continuano a farlo. E questo non esclude che abbiano mentito o stiano mentendo anche a se stessi.

La mancanza di un sostituto alle ideologie è meno grave del fatto di avere dei cazzari patentati come classe dirigente, è fuori discussione. Il fatto è che c'è gente che continua a sperare nella rivoluzione, intesa come capovolgimento dello stato di cose, ma quello che hanno in mente non è esattamente da considerarsi un mondo migliore.

Se escludiamo frange minoritarie tipo gente che crede ancora nel comunismo-leninismo o nel fascismo, quello che si può notare anche senza fare studi approfonditi è che nessuno vuole un vero cambio di sistema. In media, il genere di cambiamento richiesto consiste nel pretendere che lo Stato fornisca una lunga serie di... tutto, in modo che noi non si debba più pensare a niente. Lo Stato e i governi dovrebbero far funzionare l'economia, offrire istruzione eccellente e gratuita, salvare l'ambiente dal riscaldamento globale, promuovere la cultura, fare informazione oggettiva ed indipendente, più tutto quello che di buono vi viene in mente.

Una cosa poco nota, nel senso che tutti fanno finta di non saperla, è che questa concezione di Stato non è l'unica presente nell'universo, ma è nata in un contesto ben preciso, quello dei gloriosi anni 20 e 30. Incominciò col Fascismo, continuò col Nazismo e l'Unione Sovietica e trovò forma più moderata nelle dottrine di Keynes in America. Uno Stato che si intromette, regola e sanziona la vita dei cittadini al fine di regalare pace, ordine e felicità. Come è andata a finire con i primi tre regimi non c'è bisogno di dirlo. Con Keynes, be' pensate che propugnava l'inflazione come tassa occulta per le classi più povere. E che le politiche keynesiane, partite da un innocente “il Governo commissiona lavori anche inutili per avviare l'economia” sono arrivate a creare il tristemente noto “complesso militar-industriale”. E la Federal Reserve Bank, la quale ultimamente non si è certo fatta notare per acume e intelligenza.

Da quello che osservo io (ma non ho certo la pretesa di vedere meglio degli altri), mi pare di capire che le uniche idee per un cambiamento siano o l'utopismo – chiamiamolo così – di chi vota sperando per un non meglio precisato motivo che prima o poi arriverà qualcuno a mettere le cose a posto, e la rabbia di chi vuole uno Stato-padre-padrone che stana i commercianti ad uno ad uno, tassa i ricchi all'75%, stampa cartamoneta senza ritegno, e fa tutte le cose che i socialisti italiani hanno fatto negli anni 80. Oltre a nazionalizzare tutte le industrie. E le banche. E la produzione di vibratori.

Nell'aria sento voglia di Stato totalitario. E l'odore non mi piace per niente. Soprattutto non mi piace che non ci sia nessuno a contrastare l'andazzo. A destra vogliono rendere lo Stato violento con chi non gli garba; a sinistra vogliono una socialdemocrazia dove tutto è in mano ai privati, ma è in regime di monopolio garantito dallo Stato. Chi è escluso, vuole semplicemente che lo Stato gli dia pane e companatico, non importa a che prezzo, fosse anche quello di trovarci in un delirio nazisoviet, basta che siano gli altri a pagarlo.

Se questa è davvero l'aria che tira, allora sinceramente preferisco che le cose restino come sono. Almeno in questa situazione so barcamenarmi. Un branco di politici dediti all'uso di droga e a far soldi mi fanno meno paura di un gruppo di rivoluzionari fanatici e moralisti che hanno deciso di migliorare il mondo costi quello che costi. Io non ho mai avuto problemi con chi esercita potere su di me. Mediamente chi esercita l'autorità è più stupido di me. Se non lo posso combattere, di solito lo frego con l'intelligenza. Se vengo condannato a morte, scelgo a che albero venire impiccato.

Se invece arriveranno i rivoluzionari a portare il bene in Terra, quelli come me sono fottuti: di fronte al rivoluzionario, devi fare dichiarazione di fede. Non basta farsi i fatti propri, è necessario dimostrare che si crede alla causa. Ed io, che una causa non ce l'ho mai avuta e non voglio averla, siccome non sono capace di far finta di averne una, sarei braccato come nemico del popolo.

Perché ai rivoluzionari di tutti i tempi una sola cosa non è mai interessata: la libertà. E a me, la seconda cosa che mi interessa nella vita è la libertà. Io e la rivoluzione siamo incompatibili.

Per questo io vi dico: mi va bene questo mondo che se ne frega di me, di quello che penso e di come mi vesto, se questo significa evitare di avere moralisti rivoluzionari statalisti che possono disporre della mia vita.

Grazie.

Spendere, risparmiare o boicottare? - 1 parte

Comprensibilmente il mio post precedente, in cui si muoveva una critica all'utilità dello Stato, ha fatto sorgere la domanda più naturale: ma non basterebbe cominciare a tagliare le spese inutili, gli sprechi, i soldi buttati al vento?

La domanda però è mal posta. Di fronte al quesito se sia meglio uno Stato che spreca o uno Stato che non spreca, chiunque dotato di cerebro in quantità sufficiente risponderà “meglio lo Stato che non spreca”. Lapalissiano.

La domanda che invece mi pongo io è se sia possibile che uno Stato non sprechi. La mia risposta è un convinto “no”. No, perché quando diciamo che uno Stato spende i soldi, vogliamo dire che una serie di esseri umani, alcuni eletti altri assunti, spendono soldi altrui (e questa è la teoria) allo scopo di mantenersi in carica (e questa è l'esperienza pratica). Poiché spendere quei soldi non comporta nessuna conseguenza personale, non esiste alcun limite alle modalità di spesa e alle coseguenti possibilità di errore. Esempio (sottolineo esempio, cioè artificio dialettico per esplicare un pensiero: non è né una spiegazione né una dimostrazione): quest'estate in casa Angelo abbiamo deciso di comprare la nostra prima auto. Poiché un'auto costa molto e noi di soldi ne abbiamo pochi, abbiamo prima valutato se era utile comprarla. Una volta deciso che sì, lo era, abbiamo stabilito che tipo di auto prendere in base all'uso che ne avremmo fatto e abbiamo stabilito un tetto di spesa. Infine abbiamo deciso di non indebitarci per tutta una serie di ragioni e abbiamo cercato finché abbiamo trovato quello che ci andava bene. Come sarà successo anche a voi, ogni singolo passaggio è costato tanta fatica e sudore, e tanta paura di sbagliare. Se i soldi li avete racimolati ad uno ad uno, ci pensate sopra dodici volte prima di spenderli. Perché? Perché se sbaglierete, sarete gli unici a pagarne le conseguenze, in solido e senza sconti.

Ora immaginate di essere un politico o un amministratore e di dover comprare delle auto per i cittadini. Avete molti soldi a disposizione, che non avete guadagnato voi, e dovete scegliere che macchine comprare. Qual'è la differenza rispetto a quello che è accaduto in casa Angelo? Che all'aministratore mancano due limiti fondamentali a guidare la scelta: la soddisfazione di un bisogno e la responsabilità materiale delle conseguenze. Cosa significa? Che l'amministratore deve scegliere un'auto che vada bene a tutti, ma senza sapere quali sono i bisogni di tutti. E che non ha un freno al modo in cui spende i soldi, perché tanto anche se spende tutto quello che ha per una macchina che dopo un anno è da buttare, per lui non cambia niente.

Ma non solo, perché fin qui era solo teoria. La pratica ci dice che il politico, non avendo né il bisogno né la responsabilità della scelta, dovrà comunque adottare dei criteri per operarla. Quali? Di solito, gli vengono forniti da fattori esterni: innanzitutto prometterà di comprare un'auto lussuosa per tutti, così da ricevere voti. Una volta ricevuti i voti, non manterrà la promessa, perché tanto non dovrà pagare per non averla rispettata, e allora considererà quali rivenditori di auto gli lasceranno la busta di Natale più grossa. Inoltre, quando scoprirà di non avere limiti di spesa a causa della possibilità di contrarre debiti all'infinito che non dovrà mai saldare, perderà definitivamente il controllo.

E non fraintendetemi, è quello che avrei fatto anche io, se avessi avuto una montagna di soldi non mia quest'estate: sarei andato da tutti i concessionari e avrei chiesto quanti soldi mi avrebbero dato perché gli comprassi la macchina più costosa che avevano. Perché no? Cosa mi avrebbe fermato? Quale limite vero ci sarebbe stato fra me e una bella macchinozza da 100 mila euro, se alla fine mi sarei trovato a possedere un'auto di lusso e 2000 euro in tasca?

Sicuramente qualcuno obietterà che è possibile che anche io abbia sbagliato a compare l'auto, che potevo farne a meno, o che magari quella che ho comprato è un bidone e fra sei mesi la devo buttare. Tutto vero: ma io non danneggio nessuno con i miei errori. Se sbaglio, pago e imparo per la volta successiva.

Altri obietteranno che non tutti hanno la capacità di scegliere un'auto e che ci vuole il politico che la sceglie al posto suo. Anche questo è vero, non tutti hanno le stesse capacità. Ma chi decide chi le ha e chi no? Purtroppo ci sarà sempre qualcuno non in grado di fare qualcosa. E' la vita, a volte fa schifo, ma non per questo possiamo ridurre tutti i cittadini a minorenni incapaci di intendere e volere. Chi sbaglia paga e i cocci restano suoi.

Insomma, facciamocene una ragione, e impariamo una nozione fondamentale che non insegnano a scuola: fare politica significa soddisfare un bisogno che non si ha, con mezzi economici altrui, senza mai dover scontare gli effetti delle proprie scelte. La politica è una delle cose più folli e prive di senso che si possano immaginare.

Se a qualcuno piace, prego, si accomodi. Ma che non pretenda di chiedere a me i soldi per questo gioco.

Intermezzo sondaggistico

Mentre completo il post a continuazione del precedente come promesso, visto che ci sono mi metto a testare i sondaggi di Blogger. Perché un sondaggino, ora come ora, lo vorrei proprio fare, tanto per capire che aria tira.

E insomma, siamo arrivati a – credo – una decina di politici fino ad oggi. E mi chiedevo. Cioè... quanti altri ne dovranno beccare a tirare bamba e a pagare prostitute perché la smettiate non solo di votarli, ma anche di prenderli sul serio e di fare discorsi tipo “ah ma la politica economica di Tizio nel breve periodo porterà l'Italia allo sbando.” “No guarda, il programma di Caio evita di parlare dei riflessi strutturali che l'introduzione dell'aliquota differenziale causerebbe”, quando Tizio e Caio passano il loro tempo libero fatti come susine?

Father and son

Immaginate un padre di famiglia, però a capo di una famiglia molto ampia, di quelle di una volta – diciamo – non di quelle di oggi.

Questo padre di famiglia ha in mano la gestione economica di questo gran numero di persone, perché lui ha deciso così. In cambio, questa famiglia si aspetta che egli prenda le decisioni importanti e offra pace e tranquillità. Il padre, in questa posizione di superiorità, comincia a governare secondo quello che ritiene il meglio per tutti. Siccome non è tonto, capisce che per mantenere la pace in famiglia deve mantenere innanzitutto la propria autorità su tutti e, per fare questo, deve accontentare tutti.

Allora comincia a gestire la famiglia in questo modo: i guadagni di ogni membro della famiglia vengono incamerati dal padre per metà. Con questi soldi, il padre s'impegna a fornire a tutti i membri della famiglia quello che viene ritenuto essenziale per vivere, anche in caso di difficoltà economiche.

Col tempo, un po' per tenere buoni i membri più poveri, un po' per aumentare il proprio prestigio, il padre di famiglia comincia a spendere più soldi di quelli che incamera con i guadagni dei membri. Per non sfigurare di fronte alla famiglia, comincia a fare debiti di nascosto. E all'inizio sembra funzionare: i parenti hanno tutti la macchina, i vestiti firmati e vanno a mangiare al ristorante il sabato sera. Ogni anno però deve spendere un po' di più e deve fare un po' di debito in più. Nel giro di qualche anno, questo padre di famiglia si trova a doversi confrontare con un debito che è pari a più del doppio di tutti i soldi che in un anno la sua famiglia in teoria riesce a movimentare. Più gli interessi, per pagare i quali è costretto ad utilizzare larga parte dei soldi che invece dovrebbero essere utilizzati, come pattuito, per fornire cose utili ai familiari.

La faccenda si fa sempre più seria e alla fine il padre non riesce più a nasconderla. I membri della famiglia sono disperati: i più poveri chiedono al padre di famiglia di prendere più soldi ai più ricchi per continuare ad avere le stesse cose che avevano in precedenza. I più ricchi gli chiedono di prenderne meno, in modo che tutti abbiano più soldi in tasca e possano far fronte come possono ai problemi.

Il padre cerca di barcamenarsi come può, ma non c'è niente da fare. L'unico modo per uscirne, in teoria, sarebbe di continuare a prendere metà dei ricavi della famiglia, smettere di spenderli per qualsiasi cosa e ripianare i debiti e – magari – gli interessi. Però questo non sarebbe possibile, a meno di gettare in miseria i suoi familiari, per i quali egli era la principale fonte di benessere.

Voi cosa fareste al posto suo?

Ecco, la stessa cosa sta accadendo con lo Stato italiano. Per anni ha preso i nostri soldi dalle nostre tasche, ha fatto debiti, ha speso in lungo ed in largo allo scopo di farci credere che eravamo tutti ricchi, salvo poi trovarsi di fronte ad un debito talmente enorme da non poter essere mai ripianato in alcun modo. Come in quella famiglia la maggior della popolazione sta lentamente scivolando nella povertà, pur avendo lavorato una vita e pur avendo pagato in anticipo per una sanità, una scuola e delle pensioni di cui non usufruiranno mai perché quei soldi devono essere usati per pagare dei debiti che loro non hanno contratto mai.

Ora, qualsiasi cosa sentiate dire dal vostro politico del cuore è una sciocchezza. A meno che non vi dica “Signori, we are in a world of shit”, ogni parola che esca dalla sua bocca non ha più valore del mozzicone di sigaretta schiaccato dal rimorchio spargiletame di un trattore Fiat 415 in una mattina di nebbia a metà dicembre.

E quindi, poiché alla domanda “cosa fareste voi?” l'unica risposta sarà il boccheggiare tipico del pesce rosso mentre vi guarda con aria confusa nel rendersi conto che l'avete spostato dalla sua confortevole boccia ad una più ostile pentola che bolle sul fornello, l'unico suggerimento che mi permetto di dare è di cambiare domanda.

Cosa fareste se foste i figli di quel padre?

Se fossi io, gli direi: “Padre, per una vita ci hai cullato nell'illusione che tu agissi per il nostro bene. I buchi che ornano il retro dei miei pantaloni dimostrano il contrario. Ora, siccome sono diventato grande, ho deciso che non ho bisogno di te per vivere, né per scegliere cosa sia giusto o sbagliato. Quindi da oggi io non ti do più un soldo. I tuoi debiti te li paghi tu, perché non riesco a trovare nessuna ragione (e bada che ho cercato in ogni cassetto di casa) per cui io li debba pagare di tasca mia. Come dici? Senza i miei soldi non riusciresti a fare niente, nemmeno a mangiare? Peccato, vorrà dire che morirai di fame. Ciao babbino, stammi bene.”

Undicesimo: non esagerare

Tra le cose di cui sento la mancanza all'interno dell'umano consorzio, sicuramente c'è il senso del ridicolo. Il senso del ridicolo si compone in parti uguali di istanze morali e di istanze estetiche, allo scopo di limitare le azioni del singolo e renderle più armoniche con quelle degli altri.

Non va confuso con l'umorismo, né con la morale o con l'estetica. E' quella cosa per cui non si agisce in un certo modo per evitare che i nostri pari ci prendano in giro all'istante e quella cosa per cui siamo autorizzati a deridere qualcuno se compie l'azione che lo merita.

Perché, vi chiederete, tra tutto quello che manca al mondo, ti preoccupi proprio del senso del ridicolo? Perché se esso fosse patrimonio comune, ci eviteremmo un gran numero di problemi, dai più minuti ai più giganteschi.

Prendete il posto di lavoro, per esempio. Io lavoro nell'azienda internazionale leader del settore e i miei colleghi vengono da svariate parti del mondo. Fortunato come sono, chi mi comanda direttamente ogni giorno è italiano. Ciò significa “cialtroneria al potere”: tipicamente egli occupa quel posto grazie alla capacità di gestire le pubbliche relazioni, peraltro in un contesto dove non si è avvezzi all'uso italiano. Per cui quando l'italiano afferma di essere bravissimo in questo e quest'altro, e di avere questo e questo progetto in mente, se siete italiani sapete che sono solo parole e non gli date peso; se non siete italiani e non avete anticorpi contro la retorica da quattro soldi, gli crederete e lo metterete pure a dirigere qualcosa. Un capo di tal fatta in genere non è bravo a far niente. Anzi, non è in grado di far niente. E cerca di coprire le sue mancanze con la retorica. Purtroppo per lui, non sapendo far niente, non è nemmeno in grado di parlare in inglese (altro problema tipico di molti italiani all'estero).

Un capo incapace sul lavoro e impossibilitato a comunicare con i lavoratori è una pericolosa mina vagante. Poiché non è in grado di portare a termine il lavoro secondo i parametri che tutti i suoi parigrado rispettano, ma poiché ha detto di poter fare molto meglio di loro, si troverà schiacciato tra il martello dal management che insiste per avere i risultati promessi e l'incudine della forza lavoro che, priva di una guida e sottoposta a richieste impossibili, diminuisce la propria produttività nell'esatto momento in cui dovrebbe aumentarla. Il capo incapace qui perde il grip con la realtà e si sente messo all'angolo. Una volta messo all'angolo, reagisce di conseguenza, attaccando e facendo male. E siccome i più forti non si attaccano, si accanisce sui più deboli. E' esattamente a questo punto che il capo incapace diventa pericoloso: perché inizia a colpire a caso e non c'è modo di sapere né chi, né come, né quando. E non c'è modo di difendersi.

Molte situazioni di discriminazione, di mobbing, di persecuzione nascono in questo modo (non tutte: alcune sono scelte pianificate dall'azienda).

E cosa c'entra il senso del ridicolo? Facile: il capo cialtrone era tale anche prima di diventare capo. Se il senso del ridicolo fosse un istinto innato degli esseri umani, verrebbe notato subito e messo in un angolo. Se si presenta per un colloquio, verrebbe assunto come simpatico uomo di fatica. Se alle riunioni si sforza di tenere discorsi in inglese in cui non c'è una sola frase di senso compiuto, tutti si metterebbero a ridere. Invece no, purtroppo.

Altro esempio: ho conosciuto una giovane che ha avuto un capo (donna, in questo caso, e tedesca) che assumeva la gente affidandosi al pendolino (ossì, ho scritto proprio “pendolino”), al contempo predicando tutte le sciocchezze sul management responsabile che vanno di moda di questi tempi. Prevedibilmente, quel posto di lavoro era un inferno, dove discriminazione e guerra tra colleghi erano la quotidianità. Ovviamente la giovane in questione ha dovuto cambiare lavoro.

Vogliamo fare delle considerazioni meno personali? Prendiamo due nazioni a caso, Italia e Germania, visto che sono le mie due case. Se frequentate gli stranieri, saprete che la chiave di ricerca mentale “Italia + Germania” non produce come risultato la celebre partita di Città del Messico, ma un link che vi reindirizza alla scritta fucsia lampeggiante “nazifascismo”. Fatti salvi tutti i discorsi su quanto cattivo fosse il nazifascismo, non si può non concordare sul fatto che quei regimi fossero, benché diversi tra loro, estremamente ridicoli. Le adunate, l'estetica, la retorica, i simboli erano intrinsecamente ridicoli. Se il senso del ridicolo fosse innato, quando un austriaco e il suo seguito di avanzi di galera e pederasti passano il tempo nei bar di Monaco berciando con voce querula contro ebrei, omosessuali e non-tedeschi, il resto della popolazione si farebbe una grassa risata e gli volterebbe le spalle. E la polizia li arresterebbe per reati comuni. Invece no, li hanno presi sul serio e guardate come è andata a finire. Lo stesso vale per Mussolini e tutto quello che gli girava intorno in quegli anni.

Ma vale anche per politici più moderni, vale per Craxi, per Berluscone. E poi per Moro, Andreotti, D'Alema. Pensate se i loro sostenitori avessero un minimo di senso del ridicolo... be', smetterebbero di essere loro sostenitori molto prima che questi personaggi arrivino ad avere così tanto potere da creare danni agli altri.

A proposito di Moro: avete presente i comunicati delle Brigate Rosse? Se avessero avuto il senso del ridicolo, dopo aver scritto il primo si sarebbero messi a ridere, avrebbero sciolto l'organizzazione e sarebbero andati a fare altro. Cioè dico, sei un ventenne nel bel mezzo del decennio del sesso libero, negli anni in cui le donne te la davano per affondare il sistema capital-maschilista (a proposito, senso del ridicolo...) e tu ti metti a sbrodolare comunicati ciclostilati che attacchi sotto i cestini dell'immondizia? Non solo, ci credi talmente tanto che cominci ad ammazzare la gente per fare in modo che la realtà si adatti a quello che hai scritto sui volantini? E nessuno che ti abbia fermato nel frattempo, facendoti notare quanto ridicolo fossi.

Si potrebbe continuare a lungo. L'altro giorno una valletta della tv ha espresso la geniale idea di vietare nelle scuole il copricapo integrale per le donne musulmane. Come fanno notare Paniscus e Martinez, l'editto della valletta è talmente surreale che non si può nemmeno commentare, ma soltanto prendere in giro. O compatire.

Negli stessi giorni, una PR milanese proprietaria di un bar in Sardegna è andata a turbare la quiete pubblica durante le celebrazioni per la fine del Ramadan, inscenando uno spettacolo grottesco in cui, con la faccia deformata, accusava di essere stata rapita, picchiata a sangue, stuprata, derubata e sputata da parte dei musulmani presenti. In pieno giorno. Circondata da guardie del corpo. Di fronte ad un cordone di agenti di polizia.

La scorsa settimana una tv nazionale trasmette una video-inchiesta riguardo ad un giudice, colpevole di camminare per strada, fumare, sedere su una panchina al parco e indossare dei calzini. Il video è da vedere perché non è nemmeno giornalismo, è avanguardia iperrealista, è così assurdo da poter essere il trailer di Idiocracy, è carnevale tutto l'anno. L'autrice è uno spasso. Ho trovato il suo curriculum, dove scrive di voler – testuale – inorgoglire i suoi genitori. Me la immagino che telefona a casa: “Ciao mamma, oggi ti ho inorgoglito abbastanza?” Ma l'assurdo non è tanto lei, quanto i suoi colleghi, il caporedattore, il presentatore che non si sono resi conto della follia che mandavano in onda, esponendosi ad una figuraccia senza fine, sortendo l'effetto contrario a quello voluto.

Ho menzionato il fatto che la valletta è un Ministro, la PR una parlamentare e la televisione proprietà personale del Presidente del Consiglio?

Aspettate però, perché non è finita. Una mattina noto su Facebook che tutti sono inviperiti con una tal Binetti, senatrice del Partito Democratico, che ha bloccato un legge sulla discriminazione bla bla bla. Cerco di informarmi meglio, che non ci capisco niente, e scopro che 'sta Binetti indossa il cilicio. Cioè, questa signora, una nonnina a vederla, si sveglia la mattina e si cinge i fianchi con un cintura di metallo munita di spuntoni che si infilano nella carne allo scopo di procurarsi del dolore. Se non è chiaro, riformulo: questa senatrice cerca qualunque pretesto per rovinare la vita sessuale degli altri, però poi si vanta sui giornali di far parte della comunità BDSM. D'accordo che ogni pervertito ritiene disgustose le perversioni altrui, ma mi pare si stia esagerando.

Ecco, io il Ventennio fascista me lo immagino così: un branco di imbecilli senza cervello investiti di un potere che non comprendono, troppo scemi per fare qualsiasi cosa e che quindi iniziano a picchiare, uccidere e violentare per cercare di sviare sugli altri la propria inettitudine. Non a caso si attribuisce ad un Mussolini ormai destituito la frase “governare gli italiani non è impossibile, è inutile” anche se non è sua: perché si attaglia perfettamente al personaggio e a tutti quelli che gli sono andati dietro. E gli oppositori un branco di imbecilli uguali che invece di fare qualcosa di utile, qualunque cosa, perde tempo a scandalizzarsi su dove la gente infila il proprio pene, mentre loro si fanno frustare da un colonello delle SS che indossa una maschera antigas e che bercia in tedesco “Iss meine Scheisse, du Schlampe!”

Se solo avessimo tutti un po' di senso del ridicolo, tutto questo non sarebbe altro che un racconto erotico di terz'ordine. Invece è la prima pagina dei più importanti giornali.

Learning on the job

Oggi leggo un articolo del Corrierone riguardo ai problemi che hanno i genitori per andare a colloquio con gli insegnanti durante le ore di lavoro. Si spiega un po’ la situazione, si dice cosa si sta cercando di fare e alla fine si riportano un paio di dichiarazioni di qualcuno. Sentite la citazione di tale Rosario Salamone, preside del liceo Visconti di Roma, riguardo alla possibilità di dedicare un pomeriggio al ricevimento:

«Un’esperienza terribile: sembrava un suk mediorientale, file lunghissime e l’incontro che si esauriva nella lettura dei voti» […] «Chi mette i figli al mondo deve dimostrare una maggiore responsabilità. E saper rinunciare anche a una mattinata di lavoro». […] «Non sono un supermercato aperto 24 ore al giorno»

Non so voi, ma io con certa gente farei così. Licenziamento in tronco e divieto per due anni di lavorare a qualsiasi titolo per qualsivoglia ufficio pubblico. All’inizio questo signor preside passerebbe le sue giornate a cercare un lavoro, ma senza barare: niente amici e conoscenti, solo offerte di lavoro e invio di curriculum. Viste le grandissime abilità acquisite a fare il preside, siamo sicuri riuscirà a trovare un lavoro che gli consentirà di avere il medesimo trattamento salariale. Il che significa quasi certamente un posto da quadro/dirigente. Il che significa 9, 10, a volte 11 ore di lavoro al giorno. Durante questo periodo, proveremo a vedere quante volte riuscirà a prendersi una mattina libera per andare a parlare 10 minuti con un insegnante. Con uno, perché gli altri ricevono in altri giorni. Diciamo 5 mattinate libere in un mese per quel motivo.

Più realisticamente, il preside in questione non troverà alcun posto da quadro. Dovrà fare una lunga trafila per un lavoro che potrebbe fare chiunque, malpagato e soprattutto non assunto. Diciamo che se va bene, se va di lusso, verrà assunto da un’agenzia con contratto di un mese, rinnovato di volta in volta. Prendendo in considerazione un mese a caso, diciamo dicembre o gennaio, avrà già perso due giornate di lavoro per vari motivi (influenza, pratiche da sbrigare eccetera). Ora, sempre in questo mese, chiede anche 5 mattine per andare a parlare con i professori. Perché lui è un genitore responsabile. Fanno quasi cinque giornate di lavoro in un mese. Quanti soldi ha perso non andando a lavorare per quasi un quarto del tempo? Ma soprattutto, dopo questo mese di allegre scampagnate al liceo Visconti, quante possibilità ci sono che a fine il mese il contratto gli venga prolungato? Poche, poche.

E così il nostro ha perso il lavoro, deve pagare l’affitto, le bollette, mantenere un figlio e possibilmente nutrirsi tre volte al giorno. E tutto per andare a parlare 10 minuti con un genio della pedagogia par suo.

Dimenticavo: allo scadere dei due anni il nostro verrebbe reintegrato al suo posto. Non vogliamo avere un preside sulla coscienza...

Obiezione Vostro Onore!

Ieri ho letto questa intervista sul sito di Micromega e tristi pensieri non mi hanno lasciato per tutto il giorno. Più che il tema trattato, è la prospettiva da cui è originato ad avermi toccato negativamente. Premetto che non ho niente contro l'autore, Emilio Sbaraglia, né contro l'intervistato, Lorenzo Guadagnucci, anzi – se devo essere onesto – non so neanche chi siano (mea culpa); è solo che leggere articoli come questi fa capire per quale motivo la sinistra sembri vivere nell'oltreterreno, in una dimensione parallela inaccessibile ai più. Argomento del discutere sono i processi per il G8 di Genova. Riporto solo le frasi cui mi riferisco:

[...] Pensiamo che per le [...] vicende del G8 di Genova, violenze fisiche gravissime, come quelle compiute nella “macelleria messicana” alla Diaz, o quelle esercitate alla caserma di Bolzaneto contro decine di detenuti (i giudici hanno parlato esplicitamente di tortura), le condanne sono state [di] massimo quattro anni, e coperte per lo più dalla prescrizione. E questo nonostante l’aggravante costituita dal fatto di indossare una divisa e d’essere quindi, in quel momento, rappresentanti dello stato, quindi preposti a garantire i diritti dei cittadini.

La polizia di stato ha ostacolato il corso della giustizia, anziché mettersi a disposizione della magistratura; gli altissimi dirigenti imputati al processo Diaz [...] sono stati promossi a ruoli ancora superiori a processo in corso e hanno tenuto un comportamento processuale indegno di dirigenti di quel rango […].

Nessuno, al vertice dello stato, ha mai pensato di chiedere scusa alle vittime di abusi e violenze.

La voglia di lasciar perdere [...] affiora quando vedi l’indifferenza o il fastidio di chi dovrebbe affiancarti in questa lotta, che ha un valore morale, culturale e politico più che giudiziario. Penso ad alcuni episodi specifici: il no alla commissione parlamentare d’inchiesta dovuto alle improvvise e vili defezioni di alcuni deputati radicali e dell’Italia dei Valori meno di due anni fa; la promozione di Gianni De Gennaro a capo di gabinetto del ministro Amato; gli applausi di quest’estate a Gianfranco Fini alla Festa dei Democratici a Genova quando si è felicitato per la conferma dell’assoluzione di Mario Placanica, il carabiniere che avrebbe ucciso Carlo Giuliani, commentando una sentenza che in realtà infliggeva una pena pecuniaria allo stato italiano per la gestione inadeguata dell’ordine pubblico.

C'è una cosa che mia madre mi ha ripetuto da sempre, forse da prima che imparassi a leggere e scrivere: “ricordati che a noi nessuno ci regala niente”. La frase, presa da sola, non significa molto. Ma le occasioni per cui veniva detta ed il tono di voce con cui veniva espressa le conferivano una valenza così forte da avermela impressa ben a fondo nella mente. Non era il lamento della donnetta inviperita col mondo, significava qualcosa di ben preciso.

Ricordati: ti sto per dire una cosa che tu adesso non capirai, ma che ti servirà quando crescerai.

Che a noi: che alla gente semplice, e tu sei e sarai sempre gente semplice

Nessuno: chi detiene una qualunque forma di potere

Regala niente: proverà a mettertelo nel didietro, magari anche solo per divertimento

E' la saggezza di generazioni di contadini, mezzadri, emigranti, operai, poveri, affamati che si è impressa nel DNA dei loro figli e che ha lasciato in eredità un codice di comportamento utile per vivere in un ambiente ostile.

Allora non comprendevo molto cosa intendesse dire. Sì, certo, sapevo che in qualche modo doveva avere ragione, tua madre mica ti dice le bugie, ma certe cose sono spesso difficili da distinguere: se sei solo nipote di povera gente, se la fame non sai cosa sia, se non hai le mani spaccate dal badile questa morale ti sembra una cosa giusta, ma non applicabile alla realtà circostante. Poi però cresci e capisci cosa voleva dire tua madre quando diceva “ricordati che noi”. Significa che per quanto tu possa star bene economicamente, per quanto tu possa andare a scuola e leggere libri e parlare forbito, sei sempre il nipote di povera gente e “gli altri” non mancheranno mai di fartelo notare. Con la pancia piena le disavventure non sono mai gravi, però si notano i particolari.

Tipo a scuola, quando tu studi e ti devi meritare ogni mezzo voto che ti danno e appena sgarri di una virgola ti cacciano un bel due; mentre il figlio del ricco, il figlio dell'insegnante, il figlio del sindacalista non fanno niente per cinque anni di fila e immancabilmente hanno un media pressoché uguale alla tua. Tipo all'esame di maturità, quando a te la penna trema tra le dita, mentre all'altro capo del corridoio un commissario detta la versione di greco a chi sapete voi. Tipo quando vai a fare l'orale e un altro studente arriva accompagnato dal padre, che a sua volta viene accolto dal presidente della commissione con calorosa stretta di mano e salva di salamelecchi fuori ordinanza. E orale a porte chiuse.

Piccole cose, che non noti neanche al momento, ma che messe in fila ti ricordano chi sei e da dove vieni. Giusto in caso ti fossi montato la testa. Così prendi l'abitudine di mettere in fila tutto. Guardi quello che hanno fatto i tuoi genitori: una vita passata a lavorare a testa bassa e poi un calcio nel culo dal “padrone”, mentre scoprono che decenni di contributi se li sono mangiati qualche politico e qualche dirigente statale; non ricordi di averli mai visti nemmeno parcheggiare fuori dalle linee, però ogni volta che serve un'autorizzazione, un documento o qualunque cosa da parte di un ufficio pubblico stranamente non arrivano, l'incartamento va perso e arriva dopo 10 anni, mentre chi sapete voi tutto è pronto nel giro di 24 ore. Sono anche queste piccole cose, non è che la vita materiale venga compromessa, ma servono per metterti al tuo posto. E se questo succede a chi sta bene economicamente e ha avuto la fortuna di studiare, non è difficile immaginare come sia la quotidianità di chi fa fatica ad arrivare a fine mese.

Non esistono diritti: esiste solo quello che riesci ad ottenere con le tue forze. Tutto il resto, semplicemente, non ti appartiente, poco importa che sia il timbro sul pezzo di carta, il rimborso delle tasse o la sentenza di un processo.

E' da qui che nasce l'atavica avversione italiana per l'autorità: per un popolo che fino a ieri era povero e affamato, essa è uno strumento di sopravvivenza. Il potere non si può combattere e allora si cerca di fotterlo ogni volta che sia possibile.

Capirete che l'articolo di Micromega mi fa sorridere e non poco. Mi par di vederlo il nostro giornalista che, ormai maturo, si becca le randellate della polizia e si meraviglia che la polizia non venga condannata in tribunale. Se nasci dalla parte sfigata del mondo, impari presto che appena un poliziotto compare all'orizzonte, arrivano rogne e stai alla larga, ben alla larga, altro che processi. E di sicuro non vai a Genova, dove di poliziotti ce ne sono decine di migliaia.

Quando anche il nostro giornalista si accorge che il capo della polizia non viene condannato, apriti cielo! E' finita la democrazia, siamo regrediti a Paese incivile, terremoto e traggedia! Eh, perché prima invece... uuuuh, prima si stava di un bene, ma di un bene. Mai visto un abuso da parte della polizia; mai visti agenti infiltrati. E quanti processi contro i capi della polizia! Uscivano anche i DVD con le udienze ogni mercoledì col Corriere.

Che poi lo sappiamo di chi è la colpa, inutile mentirici. La colpa è di Berluscone, che ha fatto diventare l'Italia un Paese meno civile. Quando non c'era Berluscone, infatti, la corruzione non esisteva, i tribunali elargivano giustizia a secchiate, i politici erano onesti e gli agnelli facevano l'amore con i lupi.

E quando domani o dopodomani Berluscone verrà destituito, vedrete come cambierà l'Italia. Nelle scuole i figli dei ricchi non spacceranno più impuniti e i ragazzi bravi ma indigenti verranno portati in palmo di mano; i docenti universitari smetteranno di dare i posti a mogli, figli e nipoti; i tribunali saranno tutti gestiti così bene che l'Onnipotente verrà a prendere appunti per quando dovrà giudicare la grande meretrice; i mafiosi si costituiranno in blocco alla polizia e lupi ed angelli torneranno a fare l'amore come quando Berluscone non c'era.

Sul serio mi chiedo dove vivano questi intellettuali della sinistra. Dev'essere un mondo meraviglioso, a metà strada tra Gilmore Girls e Law & Order. A parte il fatto di non esistere, è chiaro. Così quando ogni tanto vedono che qualcosa non va, si arrabbiano e scrivono a Teletutto perché rimandino in onda le vecchie puntate, che la nuova stagione è peggiorata molto.

Comincio a rivalutare le randellate della polizia: esse non sono punitive, ma umanitarie e, se date in buon numero, è probabile che faranno svegliare anche il più fesso degli intellettuali di sinistra.

Sinclair: la pancia piena e i giovani ubriachi

Qualche tempo fa un'influenza fuori stagione mi ha costretto a letto per un paio di giorni. Precisamente, da venerdì pomeriggio a domenica sera, in modo da non perdere alcun giorno di lavoro. Se si è casa da soli e ci si ammala il fine settimana, rimane poco da fare, se non sistemare il proprio computer portatile vicino al letto e guardare tutti i film che non si ha mai avuto tempo di guardare (debitamente acquistati o noleggiati in assoluto rispetto della vigente normativa sul diritto d'autore, che non ci azzarderemmo mai e poi mai a violare).

Tra gli altri, mi è capitato There Will Be Blood di P.T. Anderson (Il petroliere in italiano), che ha riscosso un ottimo successo di critica (RottenTomatoes.com gli da un lusinghiero 91%). Il film è tratto da un libro di Upton Sinclair, Oil!, ed il caso ha voluto che poco tempo dopo lo abbia trovato in libreria. Siccome mi pareva avere del potenziale e siccome Sinclair mi era piaciuto in precedenza, ho pensato di regalarmi questi 9 euro.

Come regola generale i film tratti da libri non mi interessano, perché la trasposizione da un medium all'altro non riesce mai. Un racconto che si sviluppa per svariate ore di lettura non potrà mai essere condensato in due ore di immagini in movimento. Ma in questo caso dire che il film è tratto dal libro è decisamente eccessivo: la storia è ambientata in California e uno dei personaggi è un petroliere multimilionario che si è fatto da sé: questi sono i due unici punti di contatto tra libro e film, che per il resto narrano due storie affatto diverse.

Il libro è una sorta di romanzo di formazione che accompagna la vita di Bunny Ross, figlio di un ricco magnate del petrolio, dalla fanciullezza all'età adulta. E' la storia di una vita vissuta a cavallo di due mondi: il mondo dei milionari, dei loro figli, della loro società e delle loro scuole; e il mondo di chi lavora per quei milionari e combatte per un condizioni di vita diverse. Sono due mondi che per certi versi non si incrociano mai e che per altri si scontrano fisicamente. In questa guerra di mondi, Bunny Ross sta nel mezzo, sposa le ragioni dei poveri ma non può cancellare le ragioni del sangue.

Il romanzo viene pubblicato nel 1927 e la storia si colloca nel decennio precedente, a cavallo della Grande Guerra. Durante questi anni, Bunny Ross viene a contatto con tutte le grandi contraddizioni del mondo moderno. Le ragioni dei capitalisti; la loro lotta per sopravvivere alla concorrenza; la necessità di scendere a patti col potere politico, di corromperlo e di usarlo a proprio vantaggio; la presa di coscienza delle masse lavoratrici; la guerra mondiale; l'avvento del bolscevismo; le rivendicazioni salariali. Questo lo sfondo, sul quale il romanzo si snoda attraverso una serie di scontri: scontro di classe e scontro infraclassista; scontro di generazioni e scontro infragenerazionale; scontro di sessi e scontro infrasessista.

In questa complessità di attriti incrociati risiede la grandezza del romanzo: la capacità di descrivere ogni attore dello scontro nella sua completezza e fuori da ogni stereotipo. Nella lotta di classe non c'è il capitalista cattivo contro l'operaio buono. C'è il naturale attrito tra due interessi contrapposti, che vengono riconosciuti come tali da entrambi.

Forse questo romanzo non ha la tensione letteraria de La giungla, né la potenza evocativa di Furore; ciò che lo rende particolarmente affascinante è la capacità di Sinclair di descrivere in 500 pagine gran parte dei mutamenti che sono avvenuti nell'ultimo secolo nella società capitalista occidentale. Il valore di Sinclair sta nel fatto di aver descritto quei mutamenti prima che avvenissero, di essere riuscito a cogliere i primi segnali di cambiamento e a comprendere che essi erano il futuro verso cui ci si stava incamminando allora. Sinclair capisce che i mutamenti che avvengono a livello di elite ricchissime sono talmente importanti da scriverci un libro, tanto prezioso perché quei mutamenti avverranno nelle stesse modalità progressivamente nelle classi sociali inferiori, mano a mano che queste raggiungono una certa prosperità economica.

In Oil! giovani ricchissimi portano avanti la propria liberazione sessuale contro la morale antica. Le giovani donne esigono di esercitare la propria libertà di scelta sia negli affetti che nel lavoro. Abusano di alcol quando il Proibizionismo lo vieta. Si avvicinano alle idee socialiste per un mondo nuovo e migliore. Si oppongono alla guerra. Si impegnano a creare giornali per i lavoratori. Fondano scuole per dare ai poveri la possibilità di studiare.

Vent'anni più tardi, saranno i giovani della beat generation a percorrere gli stessi passi in cerca di una nuova morale e di una nuova libertà. E quarant'anni più tardi, saranno i capelloni, gli hippie, il '68 a riproporre, per l'ultima volta, quelle scelte.

C'è una costante, in tutto questo. Sembra proprio che, non appena una generazione raggiunga un livello economico tale da non avere problemi a mettere il pane in tavola, i suoi figli cerchino la libertà, rifiutino la sua morale e apprezzino nuove forma di sessualità e di divertimento.

Così qualcuno oggi si chiede come mai i giovani non vogliano più “fare la rivoluzione”. E' semplice: chi è giovane oggi torna a pensare con preoccupazione al pane da mettere in tavola; e quando c'è il rischio di non averne, si diventa reazionari.

Leggo che in molti si augurano che la crisi ci renda tutti un po' più poveri, così impareremo ad accontentarci del necessario; altri invece sperano in un collasso generale, così che la povertà spingerà le genti alla rivoluzione, a cacciare i tiranni e a renderci liberi per sempre.

Mi permetto di essere dubbioso. Se davvero avremo un impoverimento generale, avremo anche un'involuzione generale. La libertà si cerca con la pancia piena ed il popolo affamato non fa la rivoluzione; anche perché la storia non ha mai insegnato il contario.

Californication

Lo dico per i miscredenti che non lo sapessero: è iniziata la terza stagione di Californication. Ed è iniziata nel migliore dei modi.

Californication è una serie televisa incentrata sul personaggio di Hank Moody, uno scrittore di successo in crisi di mezza età, dedito all'uso irresponsabile di alcol, cannabis e donne. E questa è la trama delle ultime due stagioni e anche della prossima. Ma se siete interessati alla trama, non è quello che fa per voi, perché gli autori hanno scelto un cliché più vecchio dell'auto di mio nonno, hanno assunto un attore che sembrava finito nel bagaglio dell'auto di mio nonno, li hanno mischiati a dovere e sono riusciti a tirarne fuori una delle serie più belle di sempre.

Scordatevi gli intrecci narrativi di Lost, le storie d'amore di Ally McBeal, la riscrittura della demonografia di Buffy, il futuro di Battlestar Galactica, il pastiche di generi di Firefly... niente di tutto questo.

In Californication hanno puntato dritto alla pancia del telespettatore proponendo due soli argomenti: sesso e droghe, consumati in maniera smodata, compiaciuta e senza rimorso, dall'inizio alla fine di ogni puntata. Hanno corso il rischio di girare la prima serie porno soft-core della storia della televisione, e invece no. Hanno creato un mondo amorale, iperreale, decadente, assurdo e del tutto incompatibile con la comune concezione di realtà.

Insomma, il capolavoro che mi fa apprezzare il mondo occidentale, capitalista, corrotto e prossimo alla fine di cui tutti si lamentano. Forse staremo per estinguerci, ma almeno lo facciamo con stile, come nessun'altra civiltà prima d'ora, e mi sento molto orgoglioso di farne parte. Già mi immagino che bel mondo sarà, quello governato da qualche moralista barbuto o da qualche dirigente post-comunista.

No sul serio, l'estero è troppo avanti

Mentre in Italia si continua a parlare del Berluscone cattivo che va con le prostitute, non come nei Paesi civili che queste cose non succedono mai e poi mai, in Francia, con lievissimo ritardo, si comincia timidamente a parlare di un libro che Miterrand ha scritto 4 anni fa.
In questo libro, Miterrand rivendica con orgoglio il piacere che si prova ad andare in Tailandia allo scopo di pagare dei giovani maschi per avere delle prestazioni sessuali. A chi gli chiede se è a conoscenza del fatto che questo è turismo sessuale, Miterrand risponde semplicemente "Sì sì, è per questo che mi piace da matti". Quando gli si fa notare che il turismo sessuale è una piaga che sta rovinando quel Paese, Miterrand fa spallucce.
Questo sono le cose che succedono solo da noi.

Eh, ma l'estero è tutta un'altra cosa

Sono nato in un paesino di campagna. Quando ero piccolo piccolo e uscivo dalla porta di casa, trovavo le galline della vicina a farmi festa. Il mio babbo lavorava i campi a tempo perso e io potevo sedere sul parafango del trattore (una volta si usava così, tenendosi con le mani al bordo della lamiera. E siamo ancora tutti vivi. I miracoli esistono). Quando si cominciava a crescere, iniziava la prima voglia d'evasione. Avevamo la televisione. Guardavamo Happy Days e pensavamo che l'America fosse quella degli anni 50 rappresentata da un telefilm degli anni 70, poi guardavamo i film e vedevamo l'America degli anni 80. A quell'età non si va molto per il sottile: era America, sia col ciuffo di Fonzie sia con i grattacieli di Manhattan, non si perdeva tempo a sindacare.

Cominciavo a sentire il paese stretto e volevo la città. Solo che a nove, dieci anni il concetto di città è dello stesso tipo di quello di America: basta che non sia qui e ci siano un po' di palazzi. E dopo poco fui accontentato. A scuola in città. Città chiamavo quella specie di paesone con le mura attorno. In effetti notavo delle differenze. La gente parlava italiano e non dialetto. I giovani spendevano soldi in motorini costosi, anziché comprare un Ciao e tamarrarlo pezzo per pezzo (generalmente per mezzo de il Polini, rigorosamente al maschile). L'interesse delle ragazze crolla a valori negativi (niente fetish del villico, purtroppo). Nessuno ascoltava musica da discoteca (che era l'unica riguardo alla quale potevo esprimere qualche genere di cultura, non nel senso che mi piaceva, ma nel senso che era quello che si ascoltava nella mia cultura).

Comunque, a parte un primo periodo di assestamento, dopo un po' capii che, miglioramenti estetici a parte, quel paesone con le mura non era esattamente la “città” come l'avevo immaginata. Certo, la gente si vestiva secondo la moda di due anni prima, anziché sette anni come al mio paese, ma sempre fuori moda era. E in fondo la differenza media di larghezza di vedute non era sensibile. Alla fine anche il paesone con le mura ha cominciato ad andarmi stretto.

Sono finito all'università, pensando che lì ci sarebbe stata almeno una scrematura degli elementi presenti. All'inizio poi pensavo proprio di essere l'ignorante capitato per caso, perché tutti parlavano di cose molto noiose con termini molto ricercati. Ma anche qui, è bastato acclimatarsi per vedere che la maggior parte dei colleghi non era certo molto più educata di me e in molti casi era... direi quasi meno educata di me. C'erano i fini intellettuali, ma credo che adesso stiano ancora in ginocchio sotto la scrivania di qualche docente nella speranza di ottenere un dottorato.

Non fraintendetemi: ho trovato carissimi amici all'università. Il problema erano le aspettative che facevano a pugni con la realtà.

E così, tra il lusco e il brusco e senza particolare stupore dei lettori, mi sono trovato all'estero. Mai da piccino avrei pensato di finire ad abitare nel paese da cui provenivano quegli strani personaggi che vedevo al mare indossare bislacche calzature e che assumevano strani colori di pelle dopo cinque minuti di esposizione solare. Men che meno avrei immaginato di condividere in peccato mortale il giaciglio con una dolce Fräulein, di andare al lavoro tra i grattacieli e di parlare con i colleghi in una lingua straniera.

Forse qualcuno potrebbe pensare che si scateni l'effetto “ragazzo di campagna”, arrivando . Invece no... perché lungo l'ascesa dal dalla campagna alla metropoli si impara a non aspettarsi niente e anche la città straniera alla fine così grande non è, così caotica insomma dai, non esageriamo.

La cosa interessante è come cambia l'ottica con cui si guarda al proprio Paese, soprattutto in certi aspetti. Ad esempio l'esterofilia italiana. E' una cosa abbastanza tipica, di cui soffrono in molti (in qualche modo anche io ci sono passato).

Essa non è molto, anzi direi per niente, differente dal mio atteggiamento di bambino che voleva andare a vivere in città: enormi aspettative riguardo ad una realtà ignota ma idealizzata. L'esterofilia è il tratto tipico di chi l'estero lo ha visto in cartolina e pensa che la cartolina sia la verità. Ultimamente poi, a leggere giornali e blog, pare che l'Italia sia un paese di neandertaliani mentre gli altri sono delle Città del Sole; sembra che fra poco arriveranno degli esploratori dall'Europa a portare la ruota e il fuoco.

E' chiaro che in altri Paesi molte cose funzionano meglio. In generale non c'è una corruzione così pervasiva e questo conta molto. Se dovete prendere un treno avete la ragionevole certezza che parta e arrivi in orario. O che parta. O che arrivi. E via dicendo. Quello che però l'esterofilo non sa, perché non lo può vedere in una settimana di vacanza o leggendo un quotidiano italiano, sono gli aspetti più importanti e preponderanti della vita normale in un Paese straniero.

Sorrido sempre, ad esempio, quando sento parlare della tv straniera come esempio da imitare e di quanto sia migliore della pessima tv italiana. Che la tv italiana sia pessima è un dato di fatto; ma un altro dato di fatto è che l'80 per cento delle trasmissioni italiane sono format stranieri che si vedono in tutto il mondo. Ciò significa che Amici, il Grande Fratello, UnoMattina, Ballando sotto le stelle li potete vedere uguali in ogni Paese d'Europa. E a volte sono peggiori di quelli italiani: a confronto dei partecipanti tedeschi, i “ragazzi del Grande Fratello” sono un gruppo di dotti a convivio; i miei poveri occhi hanno assistito ad una puntata in cui una specie di truzzona bionda si faceva la doccia completamente nuda, esibendo due seni al silicone grandi come palloni da calcio, perfettamente sferici e ignari della gravità, a guardia del suo delicato fiore che ha avuto la cortesia di mostrare a tutta la Bundesrepublik. In giro per i vari YouPorn troverete numerose sessioni di sesso esplicito, ricco di particolari, provenienti dai vari Grandifratelli europei.

La mia esperienza con la tv tedesca è questa: 70 per cento di reality-show. Di tutti i tipi. C'è un reality per ogni cosa, persino per chi vuole diventare parrucchiera. 20 per cento di film e telefilm, la cui parte preponderante è americana ed una frazione è tedesca, ma cerca di scimmiottare quella americana (tipo Ris vs. Csi, per capirci). Il resto varie ed eventuali, telegiornali e programmi assortiti (molti di cucina).

In sostanza è come la tv italiana, solo che non esistono le veline. Quindi immaginate la tv italiana privata dell'unica cosa che la rende interessante e avrete la tv tedesca. Una noia senza limiti, per la quale pagate 17 euro al mese per apparecchio.

Sicuramente uno o due lettori se ne usciranno con la pensata che almeno qui in Germania non si fa strame della figura femminile. Dipende. Sicuramente non esistono quei personaggi tipo la Varone o Monica Setta o la Parietti, perché non esiste nella mentalità tedesca l'idea di donne del genere, ancor di più se di classe sociale elevata. D'altro canto, in tv non vedete mai donne vecchie, grasse e molto intelligenti. Le conduttrici e le giornaliste televisive sono tutte estremamente belle (più che in Italia – a dire il vero), quindi le cose sono due: o le brutte schifano la tv per principio, oppure ai provini le donne vengono giudicate a seconda del loro grado di avvenenza.

Oh, dimenticavo... ARTE. Credo sia memorizzata attorno al 17, ma la evito perché succedono cose strane: se per caso cammino di fronte alla tv sintonizzata su ARTE, mi addormento immediatamente, cadendo come corpo morto cade e rischiando l'osso del collo. Meglio evitare.

Altro luogo comune è che nel resto d'Europa tutti lavorino con contratti a tempo indeterminato, salvaguardati da un sistema pubblico di assistenza e previdenza che funziona alla perfezione, con una sanità che ti tratta da gran signori.

Non posso parlare per gli altri stati, anche se di recente ho sentito la storia di una ragazza tedesca che lavora in Svizzera, la quale – incinta – ha lavorato fino a 2 giorni prima del parto (venerdì al lavoro, domenica parto) e che presto dovrà tornare in ufficio, perché in Svizzera funziona così. Però vi posso dire quello che vedo qui in Germania.

A lungo la Germania è stata un Paese tra i più vicini al concetto di “socialismo di Stato”. Le condizioni salariali erano ottime, vacanze come neanche a scuola, sanità gratuita e università eccellente. Un operaio della Opel lavorava 30 ore la settimana per uno stipendio più che ottimo; un quadro di una grossa industria automobilistica amico di Frau Angelo lavora(va?) 25 ore a settimana e spendeva grosse porzioni del suo anno in Austria a sciare. Ho conosciuto persone dell'ex DDR che campano col sussidio di disoccupazione da quando è caduto il muro, fanno vent'anni tondi, solo perché non hanno intenzione di trovare altro lavoro se non quello che facevano quando c'erano i soviet. Insomma, le portate del pranzo sono state ricche ed abbondanti, ma prima o poi qualcuno deve pagare il conto. Cioè chi lavora oggi.

Scordatevi il sistema sanitario nazionale. Ogni persona ha un'assicurazione sanitaria privata. Privata. Il che vuol dire che se non paghi, non hai l'assicurazione sanitaria (anche se non so nel concreto cosa accada a chi non ce la fa). In più il mio stipendio viene tassato ad oltre il 40% ma, siccome le vacche sono magre, dal netto che incasso devo far saltar fuori i soldi per una pensione integrativa privata (altrimenti quello che riceverò da vecchio servirà a malapena a pagarmi il pannolino) e per l'equivalente privato della previdenza sociale, nel caso in cui avessi un incidente e non potessi più lavorare. Una vita di contributi lasciata andare a violette.

Trovare un lavoro a tempo indeterminato è assai difficile, mentre abbondano i lavoratori dipendenti mascherati da autonomi: si chiamano Freiberufler e non Co.co.pro, ma la sostanza non cambia. Ci sono anche gli 1 Euro Job (pronunciato ain oiro giob), in cui vi lascio immaginare quale sia la paga oraria. Non vi suona tutto così familiare?

Avete presente quando l'Italia manda in guerra il proprio esercito andando contro la propria Costituzione? Ecco, anche la Germania voleva mandare il proprio esercito in guerra, ma non sarebbe mai andata contro la propria Costituzione, ci mancherebbe. La Germania infatti prima ha cambiato la Costituzione, poi ha mandato i soldati in guerra. Tutto un'altro stile, volete mettere?

Avete presente quando in Italia si è avuta la bella pensata di rendere l'università bipartita in triennio e biennio, in base al principio che 4 è maggiore di 3+2? Ecco, qui è successa la stessa cosa in contemporanea, con i medesimi, grotteschi, effetti.

Molti giornali cavalcano l'onda della “fuga dei cervelli”. Storie strappalacrime di giovani riceratori brillanti che trovano lavoro all'estero. La stampa, oltre alla captatio benevolentiae verso quella fascia di lettori, compie un'operazione davvero di bassa lega. Un ricercatore universitario che va all'estero è la normalità. Ho conosciuto parecchi ricercatori della locale università e se lo facessero anche i giornalisti italiani scoprirebbero che è scontato che nelle università ci siano team di ricercatori internazionali, perché è così che funziona. Non c'è niente di strano che un italiano vada a lavorare all'estero, soprattutto se è un lavoratore di alto livello. Lo fanno in tutti gli altri stati. E' la stampa italiana che vuole far passare queste persone come dei novelli emigranti con la valigia di cartone, che lasciano la propria famiglia e i propri amici per andare a coltivare banane nella giungla.

E poi i rapporti sociali... non sono ancora riuscito ad abituarmi al fatto che qualsiasi forma di rapporto interpersonale debba passare attraverso enormi quantità di alcol, soprattutto tra i maschietti. Qui non si parlano senza l'aiutino del bicchiere. Salite in metropolitana il sabato sera e vedrete ragazze da sole o a coppie che si finiscono una bottiglia di vino per scaldarsi prima della festa. Non credo onestamente che un ragazzo sobrio abbia il coraggio di parlare ad una ragazza ad un festa. Anzi, non credo proprio che la cosa venga contemplata tra i comprtamenti da tenere in società. Molte delle persone che ho conosciuto da noi sarebbero considerate al limite dell'alcolismo o comunque con problemi di natura psicologica. Qui invece sono normali.

Sorrido quando sento dire che gli altri Paesi sono “civili”: mi fa venire in mente la mia fanciullezza, quando guardavo la tv commerciale e pensavo che la vita di città fosse quella, e parlavo male del mio paesino e pensavo di saperla lunga su come vive la gente di città. E chiamavo città quel paesotto con le mura intorno, dove la gente spendeva i propri soldi nell'inutile tentativo di nascondere le proprie radici.

Evitare l'uso criminoso

Ogni volta che si parla di libertà di stampa in Italia, dopo poco si arriva all'evidente conclusione che tale libertà esiste di fatto: il numero di giornali disponibili in edicola è talmente elevato che molti non vengono nemmeno comprati. Le idee di tutti sono espresse in maniera più o meno variegata e nessun giornale viene chiuso per volontà del governo. Senza poi contare che da qualche anno esiste anche internet, dove ognuno a costi relativamente esigui può fare informazione libera. Di fronte a questa situazione si è soliti dire che il problema dell'informazione italiana stia nel fatto che la maggioranza della popolazione si informa tramite la televisione, che è tutta o in parte in mano a Berlusconi. A questo punto ci si potrebbe anche fermare: se chi si informa ha possibilità di scegliere e, scegliendo, si informa dalla tv e non dai giornali, più di tanto non si può fare, a parte obbligarlo a leggere giornali.

Per il piacere della discussione, tuttavia, continueremo il discorso.

La televisione, come molti strumenti tecnologici moderni, è nata senza rispondere ad un'esigenza precisa. L'aereo serve per volare, l'auto per muoversi in maniera indipendente; la tv serve solo a veicolare immagini e suoni. E' perciò un medium privo di contenuti e finalità proprie.

Per quanto polivalente, come tutti gli strumenti si adatta meglio a trasportare alcuni contenuti a scapito di altri. La televisione è un ottimo strumento di intrattenimento: essa non permette di veicolare profondità di pensiero e complessità di vedute. E' uno strumento che si basa sull'immagine, che è bidimensionale e piatta. Per questo la televisione è un pessimo strumento se si vuole veicolare informazione e conoscenza, perché queste si compongono di complessità e profondità.

Si potrebbe obiettare che la tv ha insegnato l'italiano agli italiani. Questo è vero: ma quello che veniva insegnato era il corrispondente di un livello base di scolarizzazione, che di solito viene impartito ai bambini tra i 6 e i 9 anni. Aver trasmesso a degli adulti delle informazioni normalmente destinate ai bambini conferma, anziché smentire, il carattere limitato del messaggio televisivo. Ogni volta che un programma televisivo tenta di spiegare argomenti complessi, normalmente dedicati allo studio superiore o universitario, inevitabilmente fallisce, come può dimostrare chiunque assista ad un programma di “divulgazione” di un tema che conosce in maniera professionale. Non è colpa degli autori, né ignoranza: è il mezzo che non permette di veicolare quel tipo di conoscenza, così come non può trasmettere gli odori e i sapori.

La televisione, insomma, è ottima quando si presenta per quel che è, uno strumento d'evasione. E' pessima quando tenta di essere pedagogica o informativa.

Il problema nasce quando si sono capite alcune potenzialità del mezzo. Precisamente, la sua estrema efficacia nell'imprimere un messaggio in chi guarda. Non richiedendo alcuna conoscenza per essere fruito (nemmeno saper leggere) e affidandosi alle immagini per diffondersi, il messaggio televisivo è più forte e dirompente di qualsiasi altro. Non è un caso che in Italia la tv sia stata creata sotto il controllo statale. Uno strumento così potente non poteva essere lasciato in mano al primo che passava e così, oltre alla sua intrinseca superiorità, ha assunto anche il sigillo dell'autorità, abbattendo l'ultimo potenziale filtro alla sua fruizione.

Nel momento in cui il potere politico decise di rendere la tv strumento di educazione e informazione della popolazione, è riuscito a creare un Leviatano che ancor oggi tiranneggia le vite di molti: veicolare informazioni e conoscenza attraverso messaggi semplici e superficiali per mezzo di uno strumento che li renderà quasi indelebili nelle menti dei milioni di fruitori ha creato il più efficace strumento di propaganda che uomo abbia conosciuto.

Poiché l'Italia repubblicana non era quella di Mussolini, l'uso che ne è stato fatto non è stato terribile come quello dei regimi totalitari, ma – in un'ottica di libertà – è riuscita per anni a dettare minuziosamente il dibattito pubblico, gli argomenti da trattare e il modo in cui trattarli.

Oggi i difensori della libertà di informazione si battono perché la Rai torni ad essere stumento di informazione libera e plurale. Questa battaglia è così tanto sgangherata che si potrebbe considerare involontariamente comica, per tre motivi:

a) La televisione non è uno strumento di informazione. Non può esserlo perché non è in grado di veicolare nozioni complesse. Per chi si informa tramite la tv, il problema non sta nei contenuti che assorbe, ma nel fatto stesso di credere che la tv lo informi.

b) La televisione di Stato è uno strumento di propaganda, a prescindere dai contenuti espressi. In mano al potere politico è il più potente mezzo di diffusione attraverso cui arringare le folle. E' inutile lamentarsi di Berlusconi che “occupa” la Rai. Berlusconi usa la Rai per lo scopo cui è destinata, cioè diffondere la voce di chi ha il potere politico. Lo facevano la DC, il Pentapartito ed il PCI. Lamentarsi non serve a niente.

c) Per questi motivi, la Rai non è mai stata, non è e non sarà mai libera, pluralista e super partes (e no, non funziona che quando fa parlare me è libera e quando non mi fa parlare è censura, troppo facile).

Mi permetto quindi di suggerire due semplici mosse a difesa della libertà di informazione. E' un programma riassumibile in tre parole, uno slogan semplice ed efficace e di sicura presa sull'opinione pubblica:

1. Abolizione della Rai.

2. Abolizione delle concessioni statali per le tv private, sostituite da una regolamentazione che affronti gli aspetti meramente tecnici dell'attività.

Tutto il resto, tutti i pianti in difesa del pluralismo della tv pubblica, sono e resteranno il modo per cercare di ottenere un angolino di televisione di Stato dove poter erigere il proprio pulpitello da predicatore.

Rabbia contro la macchina

Un giovane solo e disperato che lotta contro le regole imposte da un sistema che lo opprime:

Stampa, libera di tacere

Molti anni fa seguivo con preoccupazione le vicende politiche italiane, soprattutto quelle legate all'attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Quando arrivò a formare il suo primo governo stabile, ero sinceramente convinto che fosse pericoloso. Non in senso metaforico: temevo che la sua ascesa al governo potesse risolversi in una svolta pericolosa anche per l'incolumità fisica mia e degli altri. Non aiutò il fatto che il G8 di Genova accadde proprio in concomitanza con l'inizio di quella legislatura. Poiché sapevo che le persone che andarono a Genova a manifestare erano pacifiche, anche se non la pensavo come loro, mi diede da riflettere vederle battute agli angoli di strada sotto l'occhio delle telecamere, mentre i pochi che commettevano reati organizzavano piccole parate musicali per la tv, per poi girare indisturbati e spaccare qui e lì senza che nemmeno un vigile urbano osasse disturbarli.

Quando Berlusconi iniziò la sua opera legislativa senza ritegno, pensai davvero che un giorno si sarebbe presentato il Parlamento e avrebbe dichiarato che l'Aula era sorda e grigia e che da allora in poi sarebbe stata semplicemente un bivacco di manipoli. Credo ancora oggi che avrebbe avuto la capacità, le risorse ed il sostegno per farlo.

Quando vedevo l'opposizione parlamentare non fare nulla, smozzicare frasi sconnesse e lasciar correre tutto quello che di sostanziale Berlusconi faceva, temevo che si ripetesse la storia degli anni '20. Non capivo come fosse possibile che non si rendessero conto del pericolo imminente.

I giornali poi discettavano amabilmente di molte cose, ma mai di quello che stava accadendo.

Gli anni sono passati e posso dire con certezza che i miei timori si sono rivelati infondati. Berlusconi non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto fare; si è limitato a risolvere i problemi suoi e dei suoi amici, mentre le componenti “libro e moschetto” della sua maggioranza sono state messe a tacere.

Nel frattempo però ho visto quello che la sinistra ha fatto in questi anni di berlusconismo. E cioè le stesse identiche cose che ha fatto Berlusconi. Sui temi più sostanziali della politica, non v'è stata un virgola di differenza. Lavoro, sanità, pensioni, immigrazione, politica estera sono semplicemente la fotocopia di quelle di Berlusconi. Quando sono stati coinvolti esponenti della sinistra in guai giudiziari, la reazione è stata la stessa che Berlusconi ha sempre adottato. Anzi, forse anche peggiore, perché almeno Berlusconi sotto processo, qualche volta, c'è andato, mentre gli altri hanno cacciato il giudice e soffocato l'inchiesta.

Ora comprendo il perché di tanti anni di silenzio. Non era stupidità, non era miopia politica. Era semplice connivenza. A differenza del sottoscritto, a sinistra sapevano bene cosa stava succedendo, sapevano che Berlusconi non avrebbe mai instaurato un regimetto parafascista, sapevano che non sarebbe andato a stanare gli oppositori casa per casa. Soprattutto, sapevano che quello che Berlusconi faceva, lo faceva anche per loro, proteggendoli dalle future grane giudiziarie e da ogni problema accessorio. Come ad esempio la legge elettorale, che nessun partito – ovviamente – si sogna di cambiare.

Oggi si manifesta per la libertà di stampa. Ah sì, dimenticavo, Berlusconi è quello che avrebbe dovuto uccidere la libertà di stampa. Lo sento dire da 15 anni (ed era un timore che avevo anche io) eppure non un solo giornale ha chiuso per volontà di Berlusconi. Anzi, l'Unità ha conosciuto nuova vita grazie all'anitberlusconismo militante.

In realtà non c'è nessuna minaccia del genere. I giornali escono regolarmente, internet è pieno di gente che non fa altro che parlare male di tutti i politici dell'arco parlamentare e nessuno è andato in galera per aver scritto che il governo fa schifo.

La realtà è che “libertà di stampa” in Italia significa “spartizione della Rai”. Non sono molto addentro alle vicende della televisione di stato, ma da fuori l'idea che mi sono fatto è questa: non riescono a mettersi d'accordo. Mentre durante la Prima Repubblica si era trovato un equilibrio nella spartizione delle poltrone, a me pare che oggi non ci si riesca più. E ogni volta che non si riesce a piazzare il proprio uomo dove si voleva, scatta la litania della censura (se di sinistra) o di egemonia culturale (se di destra). Non si spiega in altro modo tutta questa mobilitazione per la libertà di stampa.

Libertà di cosa?

Per 15 anni non si è sentito niente. I giornali non hanno mai parlato di niente. Se volete informarvi, dovete andare in rete e leggere i giornali stranieri. I giornali italiani non fanno informazione, producono soltanto pagine di dichiarazioni. Adesso, per esempio, c'è questa cosa delle escort di Berlusconi. Nessuno, nella stampa mainstream, ha mai fatto notare a Berlusconi quello che stava facendo in politica. Nessuno. L'unica cosa che in 15 anni sono riusciti a contestargli con una certa veemenza è questa storia delle prostitute. Evvai, grande stampa libera, facci sognare! Guardali quanto sono belli i tuoi lettori che sghignazzano e si danno di gomito, mentre cercano di fare la faccia seria fingendosi indignati per l'orrore che Berlusconi ha commesso. In una copia venuta male del giornalismo americano, cerchi, tu libera stampa italiana, di far crollare un politico a causa delle sue presunte ore di sesso a pagamento. Siamo tutti sconcertati, davvero. Un uomo che va con una prostituta.

E dov'eri quando quell'uomo passava leggi ignobili, rendeva il mercato del lavoro un inferno per i deboli, mandava in carcere senza processo della gente solo perché non ha in regola i documenti? Se non lo ricordi, te lo dico io, libera stampa italiana: tacevi, perché erano le stesse cose che i tuoi referenti politici hanno fatto quando ne hanno avuto occasione.

Quando si ingaggiano alte battaglie morali, bisogna premurarsi di avere credibilità. E a te, libera stampa italiana, manca anche solo l'apparenza di credibilità. Hai taciuto sul mondo del lavoro, sulle guerre illegali che l'Italia sta portando avanti nel mondo e su mille altre questioni, però vorresti mobilitarmi perché un uomo avrebbe (mica ne siamo sicuri) giaciuto con una prostituta.

No grazie, la mia indignazione la lascio per il milione e più di morti che le guerre in Iraq e Afghanistan hanno provocato anche con il sostegno dell'Italia e per espressa volontà dei tuoi referenti politici. La lascio per come è stata ridotta l'economia italiana anche grazie alla fattiva opera dei tuoi referenti politici, cara libertà di stampa italiana. La lascio per tutte quelle cose per cui è serio indignarsi.

Un po' di tempo fa ho visto una conferenza stampa di Zapatero insieme a Berlusconi e col siparietto di un giornalista spagnolo che si fa prendere in giro da Berlusconi. Grande, grande, grandissima indignazione di tutti i sostenitori della libera stampa. Grande, enorme tristezza da parte mia. Questo giornalista aveva a destra un uomo che ne ha combinate di tutti i colori, che viene accusato di essere amico della mafia, che controlla tutte le televisioni italiane e chi più ne ha più ne metta; a sinistra ha un uomo che è responsabile della più grossa crisi economica della Spagna, con una bolla immobiliare che fatto blup e un tasso di disoccupazione che sfiora il 20%; e lui cosa fa? Chiede se Berlusconi è andato a prostitute.

Presidente, lei va a prostitute?”

Certo, signor giornalista, ogni giovedì alle 21. Vuole che le mostri la fattura?”

Non serve. Grazie per la risposta, Presidente.”

Prego. Il prossimo?”

Evviva la libera stampa, orsù andiamo tutti a manifestare.

Accordo d'aeree cicale

Una serie di letture coincidenti mi ha fatto ragionare riguardo ad un argomento e, poiché è noto che le umane vicende siano organizzate sì da dare materia a questo blog, ho ritenuto giusto scriverci un post. Contemporaneamente, in contesti diversi, mi è capitato di sentire lamentarsi parecchie persone dello stato della "produzione culturale" contemporanea. A ben pensarci, è un tema ricorrente. Ricordo ai tempi dell'università un vecchio professore di letteratura greca che trattava gli autori di età tardo ellenistica e romana (gente morta più di 2000 anni fa) come dei giovani capelloni drogati, incapaci di scrivere due righe in croce.

Poi hanno fatto la loro comparsa i nostalgici degli anni '80, dicendo che come allora non ci si diverte più, che i giovani hanno perso lo spirito di quei tempi e che musica come quella non la fanno più. A parte il fatto che sono le stesse cose che si dicevano degli anni '60 e degli anni '70, io mi ricordo abbastanza bene gli anni '80, ed erano francamente orrendi. Musica terribile, vestiti al limite del farsesco e serial killer in giacca e cravatta: rimpiangere gli anni '80 non può essere un pensiero razionalmente determinato. Ok, c'erano i Goonies e Teen Wolf. Ciononostante...

Il tocco finale però l'ho notato girellando per forum e blog di videogiochi. Voi non ci crederete, ma una larga parte dei videogiocatori si lamenta in continuazione di come i videogiochi non siano più quelli di una volta, che i ragazzini di oggi non hanno idea di come sia un vero videogioco e che non sanno più divertirsi come una volta.

Ciò mi ha fatto riflettere. Se si può essere un laudator temporis acti persino riguardo ai videogiochi, qualcosa nell'evoluzione è andato storto (per tutti gli altri, l'intelligent design non era così intelligent).

Ma cosa si cela davvero dietro alla constatazione che la produzione culturale moderna è di così bassa, infima qualità? Vediamo.

Per cominciare, bisogna definire rispetto a cosa. Quando la produzione culturale era migliore? Una volta... ma una volta quando? Dove si pone il terminus a quo?

I più colti partono sempre da Omero. Facciamo finta di essere colti. Dividiamo per semplicità la storia tra prima della stampa a caratteri mobili e dopo. Tutta la produzione precedente, da Omero in poi, per essere arrivata a noi deve essere stata conservata su un qualche supporto. In altre parole, tutto quello che non poteva essere salvato su un supporto durevole, non è arrivato a noi. Di quello che è messo su supporto durevole, nel corso dei secoli si è selezionato in base a vari criteri cosa continuare a mantenere su un supporto. Di questo, gran parte è andata perduta con gli incendi delle biblioteche di Alessandria e Pergamo. Durante il medioevo, quando pergamene e soldi per i manoscritti non ce n'erano molti, bisognava selezionare quali libri continuare a copiare, e lì di sicuro ne sono andati persi molti altri. Con l'avvento della stampa, le cose sono migliorate, ma solo leggermente. Un incunabolo era un oggetto estremamente costoso e quindi ci si pensava due volte prima di stampare un'opera. Col tempo i costi si sono abbassati, ma in ogni caso il tempo ha fatto perdere traccia di molte opere del 500 o del 600. E per venire a tempi più recenti, pensiamo anche a tutta la produzione libraria o musicale dell'800: di essa rimane solo una selezione ristretta.

Insomma, quando ci lamentiamo di com'era migliore la produzione culturale di una volta, in realtà ci riferiamo a quello che a noi è rimasto dopo una serie di filtri che hanno impedito al 99% di essa di arrivare a noi; filtri oggettivi (la musica antica e i dipinti non avevano supporto durevole), filtri qualitativi (sono state scelte le opere migliori), filtri economici (un libro costa molto, devo scegliere cosa tramandare), filtri ideologici (siete un monaco amanuense: copiate la Bibbia o il De Rerum Natura che nega la Bibbia?), filtri sociali (la cultura popolare non si trasmette e non viene insegnata a scuola). Senza dimenticare che quello che rimane dopo questa scrematura diventa lo standard culturale di riferimento; detto in parole povere, se siete una persona con un'istruzione medio-alta, avrete passato i primi 25 anni della vostra vita a farvi insegnare che quello è “bello” e il resto della vostra vita a crederci e ad insegnarlo ad altri.

Se invece osserviamo la produzione culturale contemporanea, la vediamo nella sua interezza, senza che nessun filtro venga applicato, perché esso si può applicare solo ex post. Tranne quello economico, l'unico che si applica nel momento stesso della pubblicazione, anche se di fatto è un filtro che non funziona a causa della riduzione dei costi quasi a zero. E così si viene costantemente sottoposti alla produzione culturale che non distingue tra bello o brutto, di valore o privo di valore; essendo tuttavia il bello per definizione un sottoinsieme della produzione culturale (se tutto è bello non è più bello), l'impressione è di una produzione mediocre tendente al brutto. L'errore sta nel considerare la produzione passata come se fosse tutta la produzione, e nel paragonarla alla presente.

Più corretto sarebbe affermare che la produzione culturale presente è mediamente peggiore della migliore selezione della produzione passata. Ma poiché questo suona come scontato e banale, dobbiamo senz'altro concludere che non si stava meglio quando si stava peggio e che avere musica di bassa qualità e libri tipo Twilight è il prezzo da pagare per essere vivi.

E comunque una cosa è vera: giochi come Monkey Island e Grim Fandango non li fanno più.