Jukebox

Di tanto in tanto alcuni dei miei lettori si dilettano nei loro blog a discutere di musica, solitamente dedicandosi a generi non più praticati da decenni oppure alle vite degli interpreti, persone gravemente afflitte da disturbi del comportamento ma anche così gentili da averci privato della loro presenza in vari modi, mai banali, in giovane età. La discussione è più una forma di combattimento rituale, in cui si mostrano le gengive e si lanciano ossa animali raccolte da terra. Niente di pericoloso.

Tra gli altri blogger, invece (soprattutto quelli più in vista e i loro epigoni) vige la pratica di guardare tutte le puntate del festival di San Remo, per poi debitamente stroncarle sul proprio blog. Sarebbe del tutto pleonastico far notare che costoro ricordano i vecchi giudici d'un tempo, canzonati dal popolino perché – colla scusa di far rispettare la legge – andavano a guardare i film sconci. Orsù, se volete guardare il festival di San Remo, ebbene fatelo, ma non cercate di lavarvi la coscienza parlandone male: non funziona.

Tutto questo per dire che, in attesa del prossimo post, potete ascoltare un po' di buona musica.

D'umanisti e di precari/3

Carrellata semiseria di ricordi di poco conto sui giovani precari, scritta da un giovane quasi precario. Parte terza ed ultima.

Il fatto che i tradizionali studi classico-umanistici non siano più l'educazione privilegiata dalla classe dirigente moderna, insieme al fatto che essi siano stati scelti per essere la zona morta in cui lasciare chiunque aspiri ad una laurea ma non ne abbia le capacità, ha reso la figura dell'umanista la caricatura di sé stessa.

Potendo chiedere ad un campione scelto a caso cosa intendano per “umanista”, ne risulterebbe la descrizione di qualcuno a cui piacciono “i libri”, che ha a che fare con la letteratura e l'arte (ma non un musicista né un pittore), un po' filosofo ma anche no. I contorni sarebbero cioè molto sfumati ed una definizione coerente non si troverebbere. E questa, fateci caso, è anche l'accusa che viene rivolta agli umanisti: di parlare senza conclusione, di dedicarsi ad argomenti fumosi, di non saper fare niente di preciso. Insomma, quasi sempre le accuse contro gli umanisti sono il riflesso della propria ignoranza riguardo all'umanesimo medesimo: io non so di preciso cosa fai, quindi tu non fai niente di preciso.

Dei problemi che affliggono gli studi umanistici abbiamo già ampiamente trattato. In questo contesto parlo di essi così come essi dovrebbero essere, portati avanti a modino e in via del tutto teorica.

Al contrario di quanto affermato dalla vulgata, gli studi umanistici sono tutt'altro che fumisterie a basso prezzo. Ogni disciplina ha un suo preciso campo d'azione, all'interno del quale agisce secondo metodologie razionali fondate su evidenze fattuali, in base alle quali formulare teorie che diano ragione di una determinata realtà. Che si stia parlando di storia, letteratura, filologia, studi linguistici o artistici, non ci si riferisce mai a studi basati su opinioni. Il problema, semmai, è che i fatti su cui si basano non sono di natura oggettiva, ma prodotti dall'uomo e quindi estremamente soggettivi ed incompleti. Ad esempio negli studi storici le fonti più “parlano” e più si rivelano soggettive. Mentre un ostrakon ateniese ci trasmette informazioni tutto sommato oggettive ed affidabili (datazione, nome dell'interessato al procedimento penale eccetera) ci dice poco o niente del processo; per contro, una fonte letteraria che ci spiega dettagliatamente il processo che ha condotto all'ostracismo di un cittadino ateniese, sarà estremamente soggettiva e inaffidabile e dovrà essere vagliata attentamente. E questo vale anche per le altre discipline, in modi diversi a seconda delle peculiarità di ognuna.

Quindi non è la natura degli studi umanistici ad essere soggettiva (come molti credono), ma la natura dell'oggetto degli studi umanistici. Di conseguenza non è vero che essi sono il terreno dell'opinione e della discussione fine a sé stessa.

Un'altra loro caratteristica è la necessità di una continua interazione tra discipline: un bravo umanista deve sapere maneggiare tutte le altre discipline oltre alla propria (pur con un minor grado di specializzazione): non è possibile studiare una disciplina senza metterla in relazione con tutte le altre: storia, letteratura, filosofia... sono strattamente legate e non si può credere di conoscere l'una se non si conoscono le altre. Questo è particolarmente evidente negli studi di antichistica, dove il confine tra le varie materie è talmente sfumato da essere poco più che formale. Un vero antichista passa senza problemi dalla filologia alla filosofia alla storia alla critica letteraria.

Purtroppo in Italia (o forse anche nel resto del mondo, non saprei) l'idea che ci si fa delle materie umanistiche è di stretta derivazione giornalistica. E quindi è chiaro che al lettore medio sembra ovvio pensare che gli studi umanistici siano il regno dell'opinione, perché il suo modello di umanista è un giornalista che scrive le sue opinioni. Una pseudocritica letteraria che recensisce i libri in base a criteri infantili, la storia riscritta in funzione politica e via dicendo sono tutte creazioni giornlistiche che danno l'idea di essere “umaniste”, ma che non hanno niente a che spartire con il vero studio.

È tuttavia chiaro che difficilmente il cittadino medio potrà mai entrare in un'aula universitaria e vedere in cosa consista un vero dibattito storico o letterario o filosofico e quindi, senza possibilità di confrontare, prenderà per buono quello che legge sui giornali.

Altrettanto chiaro è che gli studi umanistici sono riservati a pochi: non a pochi in senso elitario, ma a pochi in senso di “mercato del lavoro”. Poiché con essi è difficile trovare occupazione ci dovrebbe essere una naturale tendenza ad evitarli, al contrario di quello che accade oggi. Sarebbe necessario filtrare e cercare l'eccellenza, anziché distribuire titoli a piene mani. Ma sappiamo che avviene il contrario.

Infine, la domanda che tutti si pongono è “a cosa servono?”. Domanda cui ogni umanista non risponde nemmeno, e cui ogni non-umanista non trova risposta. Credo che siano tre i campi in cui essi sono utili (logicamente è una divisione di massima, anche perché bisognerebbe prima mettersi d'accordo su cosa sia umanistico e cosa no):

1. Lo studio accademico.

2. La formazione di chi vuole lavorare nel mondo dell'arte o dell'intrattenimento. Una solida conoscenza tecnica di quello che è venuto prima è l'unico modo per poter creare qualcosa di nuovo, sia esso un romanzo, un film o un quiz a premi. Perché i film americani fanno miliardi? Perché chi li fa ha studiato Aristotele e Propp.

3. La formazione dei giovani. Le discipline umanistiche sono come la preparazione atletica nello sport. Servono ad allenare il corpo e a prepararlo, per poi lasciare spazio alla specialità vera e propria. Per la loro specificità, esse preparano all'elasticità mentale, alla teorizzazione, all'astrazione, alla capacità di analizzare un dato da diversi punti di vista. È chiaro come sia necessario eliminare l'assurda contrapposizione con le materie “scientifiche” (contrapposizione tutta ideologica e non fattuale) ed anche ripensare il contenuto specifico di ciò che viene insegnato, perché magari sei mesi di Dolce Stil Novo sono troppi anche per lo studente più diligente.

Credo che in un'ottica di serena integrazione con il mondo contemporaneo, le discipline umanistiche abbiano un loro posto di tutto rispetto e abbiano ancora molto da offrire, soprattutto se gli umanisti cominceranno a capire che non siamo più alla corte dei Medici ma in una società che, pur non venerandoli, potrebbe aver ancora molto bisogno di loro.

(Fine)

Cultura e colonizzazione

A me piacciono le prove definitive. Mi piacciono perché di solito sono il solo a portarne, in una discussione. Non capisco perché gli altri non riescano mai a fornirne di altrettanto solide. Comunque, oggi vi porto la prova definitiva del perché la cultura pop americana sta colonizzando e uccidendo quella italiana.

Esempio di cultura pop americana

Esempio di cultura pop italiana

Non ci stanno colonizzando. Ci stanno salvando.

D'umanisti e di precari/2

Carrellata semiseria di ricordi di poco conto sui giovani precari, scritta da un giovane quasi precario. Parte seconda.

Nel volgere di qualche decennio la cultura umanistica è diventata – nell'immaginario collettivo – la sorella disgraziata nella famiglia degli studi. Probabilmente ciò è dovuto a due fattori incrociantisi: essa è stata tradizionalmente patrimonio delle classi sociali più elevate, che l'hanno sempre tenuta gelosamente al riparo da mani impure. Nel frattempo, le classi sociali un tempo inferiori sono uscite da tale condizione e sono arrivate alla “stanza dei bottoni”, nel senso che il mondo contemporaneo non è più retto da borghesi col cappello a cilindro che discutono del De bello gallico, mentre progettano la prossima ferrovia e finanziano la deportazione di qualche decina di migliaia di africani verso le Americhe. Oggidì il mondo è mandato avanti dagli scienziati e dai tecnici, da coloro che sanno creare e gestire le tecnologie moderne e che, per la maggior parte, non hanno avuto la formazione umanistica destinata alla vecchia classe dirigente.

Mi pare che in Italia il mondo accademico abbia compreso di aver perso l'avito prestigio e che stia cercando di riaggiustare il tiro per ridare dignità alle materie umanistiche. Tuttavia esiste una forte tendenza a raggiungere questo obiettivo attraverso mezzi illeciti, cercando di spacciare i corsi umanistici per quello che non sono, e cioè discipline scientifiche. Il modo più semplice è cambiare loro nome: una volta erano “Lettere classiche”, oggi sono “Scienze dell'Antichità”; una volta erano “Lettere Moderne”, ora sono “Scienze del testo letterario”.

Ma questo non è un male, in fondo un po' di belletto non può che render più gradevole il modo in cui si presentano. I dubbi sorgono quando il docente (che purtroppo è il giudice assoluto del proprio operato) cerca anche di portare il contenuto della propria disciplina più vicino a quello dei colleghi fisici e matematici. Tipicamente, ciò passa per il ricorso ai numeri. I numeri – si sa – sono oggettivi e scientifici, ed un foglio pieno di cifre è per forza scientifico. Inoltre, le discipline scientifiche sono anche difficili (perché hanno i numeri) quindi il numero è la strada obbligata per rendere le materie umanistiche scientifiche, oggettive e difficili.

Per esempio, se siete un docente di storia, i vostri esami consteranno di una sequela incredibile di cifre da snocciolare. Liste di eventi da datare, numero di membri del consiglio del principe di turno, numero di catalogo dei reperti degli scavi del sito paleoveneto di Cazzago (VE): c'è solo l'imbrazzo della scelta. La quantità di numeri che si può chiedere è strabiliante e non c'è nemmeno il rischio che ci siano due compiti uguali. Almeno l'esame è difficile? Certo che lo è. Immagazzinare una lunga serie di numeri slegati da qualsiasi significato è difficile, nel senso che ci vuole tempo e dedizione. In più, il docente obbliga a studiare un paio di libri che non si occupano di fornire liste di numeri, ma cercano di spiegare cosa sia successo nel dato periodo, quindi il giovane umanista studia quello che non gli verrà chiesto, mentre gli verrà chiesto quello che non gli è stato spiegato. Comunque, questo genere di difficoltà non favorisce lo studioso, ma lo sciocco. Ora, pensiamo di rimanere 12 ore in una stanza senza fare nulla. Nulla di nulla. Non si suda, non ci si stanca. È difficile passare 12 ore a non far niente? Molto. Ecco, per una mente normodotata imparare a memoria la catalogazione dei cocci di una chiatta vichinga equivale a non fare niente. In questo sistema lo sciocco è naturalmente avvantaggiato, perché è un esercizio che richiede di mettere a tacere il cervello. Ed infatti negli ultimi anni che ho passato io all'università era normale tenere i libri di storia chiusi e imparare a memoria la cronologia che di solito viene messa prima della quarta di copertina.

In questo modo si opera una selezione al contrario che avvantaggia i mediocri ed espelle i migliori: nessuna mente brillante ha voglia di continuare gli studi dopo la laurea in queste condizioni. Mentre le menti ristrette, incapaci di creare connessioni fra eventi e non adatte a mettere in discussione i dati forniti trovano l'humus adatto a proliferare. La cosa si notava particolarmente quando qualche novello dottorando o dottore veniva a tenere seminari o lezioni: anziché portare aria fresca e fornire stimoli a guardare le cose sotto profili diversi, questi giovanotti erano più noiosi dei vecchi docenti, che almeno avevano il pregio non indifferente di essere persone colte e con qualcosa da dire.

Come se non bastasse, alla fine della lunga serie di esami passati imparando a memoria quattro paginette di numeri, bisogna anche scrivere la tesi. Normalmente per un umanista la tesi dovrebbe essere una passeggiata: in fondo ha passato gli ultimi anni della sua vita a leggere libri di storia o critica letteraria o quello che è, sarà in grado di fare lo stesso no? No, perché nessuno gli ha mai chiesto di comprendere quei libri, ma di imparare a memoria delle cifre. Quindi scatta il panico. E le possibilità sono due: il professore buono e il professore cattivo. Il primo è quello che raccoglie attorno a sé numerosi adepti e li usa per le proprie pubblicazioni: c'è bisogno di catalogare i rinvenimenti di un sito oppure di trascrivere un manoscritto medievale oppure digitalizzare la biblioteca del dipartimento? Non c'è problema, lo facciamo fare a chi si deve laureare, gli facciamo scrivere quello che serve, gli diciamo che è una tesi, gli diamo 110, raccogliamo il materiale, lo pubblichiamo a nome nostro ed oplà, ecco che abbiamo il nostro articolo per il prossimo seminario di studi antichi, o per il prossimo numero di “Filologia oggi”, o per la proposta di finanziamento dell'informatizzazione della biblioteca, con annessi fondi. Tanto ai ragazzi che gli frega, quelli finiscono al call centre comunque.

Il professore cattivo invece è quello vecchio stampo. Fa 6 ore di lezione in un semestre, non ha idea di cosa sia successo nell'università italiana negli ultimi 30 anni e come tesi laurea pretende un lavoro in due tomi da 300 pagine che sia la base necessaria a sviluppare il dottorato di ricerca. Che potrebbe anche essere interessante, se non fosse che la borsa di studio per quel dottorato si sa già a chi andrà a finire. E non siete voi.

Oltre a questo, va ricordato che il lavoro è un corollario della legge morale che serve a definire socialmente il valore di un individuo, secondo il principio “più si lavora, più ci si eleva moralmente”. Quindi il docente vi chiederà sempre quanto ci avete messo a preparare un esame. Prima regola, mentire. Allargare. Dilatare. Tre quattro cinque mesi! Quando il mio correlatore mi chiese quanti mesi avessi impiegato a scrivere la mia tesi ed io potei esibire soltanto un misero “9”, mi guardò con compassione e, affranto dal dolore, non disse niente (salvo indicare quali articoli da lui scritti andassero messi in bibliografia). È chiaro che questo discorso andava bene fino a qualche anno fa, quando il vecchio ordinamento era ancora un macigno che pesava sull'università. Magari adesso è diverso.

La conseguenza è che i giovani studiosi assimilano questa mentalità e allora intenzionalmente dilatano il loro periodo di studio per “imparare meglio”. C'è questa idea tra gli umanisti che per sapere di più bisogna metterci tanto tempo. Più tempo, più sapere. Se ci mettete 10 anni a laurearvi, vuol dire che amavate davvero lo studio e conoscete alla perfezione la vostra materia.

Il quadretto non è idilliaco. E nemmeno bucolico, per dirla tutta. Una formazione di questo tipo non può che generare mostri. Mostri tagliati fuori dalla società, giocoforza destinati al precariato perenne, anche se studiavano molto e avevano tutti 30 e lode. Ed è significativo, ma non rassicurante, il fatto che molte persone che hanno successo nella vita, siano sempre state ai margini della vita di studi. Significa che il percorso formativo intralcia i più dotati, blocca i “normali”, manda avanti i mediocri; non stupisce che i furbi si facciano strada e i normali emigrino all'estero.

(continua)

(prima parte)

D'umanisti e di precari/1

Carrellata semiseria di ricordi di poco conto sui giovani precari, scritta da un giovane quasi precario. Parte prima.

Preludio. In Italia il lavoro – latu sensu – non è l'attività attraverso cui l'uomo ottiene dei beni di vario genere, ma una corollario della legge morale che serve a definire socialmente il valore di un individuo, secondo il principio “più si lavora, più ci si eleva moralmente”.

Ciò detto, ospitando l'Italia una società complessa, per ottenere il pane quotidiano l'individuo non si limita a cacciare e piantare il grano a primavera, ma svolge un'attività altamente specifica, in cambio della quale riceve del denaro, in cambio del quale riceve beni.

Orbene, sappiamo tutti che da poco meno di 20 anni esiste il fenomeno del precariato, che colpisce in particolare le fasce più giovani della popolazione lavorativa, e molto spesso le fasce acculturate della medesima. A leggere la stampa informata, l'unica reazione che si sente è il solito piagnisteo di qualche gruppuscolo intento a chiedere al governo di fare qualcosa. Qualcosa che puntualmente il governo non fa, perché i governi più che tassare e fare guerra non possono. E allora si passa al pianto: “sono senza lavoro perché il governo, gli imprenditori, i comunisti, il turbocapitalismo, la massoneria, la Chiesa, la Cina, gli alieni...” che, tradotto, diventa “sono senza lavoro, ma non per causa mia, perché è sempre colpa degli altri.”

Se è vero che il mondo lì fuori non è il massimo, è altrettanto vero che il mondo lì fuori non è mai stato il massimo. Quindi proviamo per una volta a parlarci tra di noi seriamente. Tanto qui non ci legge nessuno e possiamo permetterci di dire quello che vogliamo. Aggiungo solamente che da tutto quello che dico io non mi tiro fuori: il curatore di questo blog è uno come tanti, con una vita come tanti e senza particolari motivi per cui debba ritenersi al di sopra o al di fuori del gruppo sociale cui appartiente. Io vi dico la mia, vedete voi cosa farne.

Come ho già avuto modo di scrivere, nel nostro Paese si è deciso che l'istruzione doveva diventare di massa, cioè non doveva essere accessibile a tutti, ma tutti dovevano accedervi. Per qualche strano motivo, si è deciso che più gente doveva avere la laurea (in nome dell'onnipresente e insulso paragone con l'estero magico e meraviglioso) ed allo scopo si sono scelte le facoltà umanistiche. Quando dico scelte, intendo proprio una volontà attiva: nel corso degli anni si sono rimossi tutti i filtri che impedissero ad una persona qualunque di ottenere una laurea umanistica, a prescindere e dalle sue conoscenze pregresse e dalle conoscenze acquisite. Chiunque può iscriversi ad una facoltà umanistica senza sapere nulla ed uscirne dopo un tempo x senza sapere nulla. Non è un iperbole. È la realtà dei fatti. Ed è il motivo per cui il sentire comune percepisce le facoltà umanistiche come “facili”, luoghi dove si parla tanto e non si conclude nulla, dove si fa “filosofia”, cioè “ci si parla addosso” e via dicendo.

Il fatto è che le discipline umanistiche, di per sé, non sono facili né alla portata di tutti. Non siamo più nel 1869, quando un giovanotto un po' tocco poteva ricevere la cattedra di letteratura greca prima della laurea per aver scritto degli sgangherati pensierini sull'antichità. Sebbene non appartengano alle scienze esatte, hanno fatto propri i criteri di ricerca e studio tipici di quelle materie, grazie ai quali hanno raggiunto dei gradi di serietà e specializzazione sconosciuti fino a 50 anni fa. Quindi, prese per quelle che sono, le facoltà umanistiche hanno una loro dignità e un posto di rispetto tra gli studi accademici. Per loro stessa natura, però, non sono appetibili che ad una ristretta fascia di popolazione. Di gente che vuole studiare davvero filosofia in maniera seria non ne trovate molta in giro, ed è normale che sia così. Come pure certe facoltà, come Scienze della Comunicazione, avrebbero tutto il senso di esistere in un mondo in cui la comunicazione è una parte consistente dell'economia.

Il problema è che si è deciso che in queste facoltà dovevano entrarci tutti e quindi corsi che sarebbero destinati a pochi ma buoni si sono trasformati in una corte dei miracoli dove potete trovare di tutto. Ad esempio la facoltà di Lettere e Filosofia era destinata a chi ha fatto il liceo, possibilmente classico, perché era strutturata in modo da non dover fornire le conoscenze di base per dedicarsi soltanto all'approfondimento. Studiare filologia dantesca o ermeneutica non è un diritto sancito dalla Costituzione, quindi si procedeva a bloccare in partenza quelli senza le conoscenze pregresse adatte. Quando si sono aperte le iscrizioni a tutti, un fiume di persone che non aveva alcuna idea del proprio destino ha varcato la soglia di Lettere e si è trasformato in carne da cannone. Nei corsi più frequentati (quelli obbligatori) i pochi con una formazione classica come me assistevano quotidianamente al massacro di questi poveri giovani mandati contro un nemico più forte, motivato ed armato: la cultura. Per lo più questi disgraziati non capivano l'argomento della lezione – nel senso: non capivano quale fosse l'argomento della lezione; altri non capivano la terminologia usata; altri non capivano i libri da leggere. Ricordo ancora il mio primo semestre, corso di linguistica generale: tradizionalmente destinato ai pochissimi studenti di antichistica, divenne obbligatorio per tutti i partecipanti al concorso di Lettere e Conservazione dei Beni Culturali. Mi sentivo come un soldato a Verdun nel 1916: gente che non studiava italiano dai tempi delle medie costretta a prendere appunti sull'etrusco! Potevo leggere la disperazione nei loro occhi, ma non potevo far nulla per aiutarli. Li vedevo cadere ad uno ad uno sotto i colpi dell'apofonia e della tripartizione della società indoeuropea. Forse qualcuno ha ancora gli incubi pensando al wanaka.

Non tema comunque il lettore. La disperazione di costoro non li ha fatti certo desistere e si è trasformata in rivendicazione di diritti. Esame di latino, obbligatorio per tutti. Il latino a Lettere è come il numero di Avogadro in chimica: è la base minima per poter comprendere tutto il resto. A livello accademico, italiano e latino sono legati così strettametne da diventare inseparabili; non si può parlare di italiano senza sapere latino. Il 99 percento di coloro che tentavano di passare il turno non aveva mai fatto latino in vita sua. Ma ciò non costituiva un problema, perché pretendevano di passare l'esame di latino: siccome loro non lo sapevano, era ingiusto che si chiedesse loro di saperlo e rivendicavano il diritto alla promozione. Il principio era che lo studente passa un esame per il fatto stesso di essere inadatto a passare l'esame. Guardate che non mi invento niente.

Considerando però che l'ordine supremo è quello di promuovere, si sarebbe di fronte ad un bel dilemma. Come può un professore promuovere uno studente che non sa nulla? Difficile, a meno che...

non applichiamo il concetto di lavoro che abbiamo premesso all'inizio al mondo delle facoltà umanistiche. In base alla concezione moralistica di lavoro, lo studente viene giudicato per la quantità di fatica patita sui libri e non per il risultato prodotto. È il sempreverde “com'è bravo, studia 12 ore al giorno, si merita 30 e lode”. In un sistema di valutazione razionale, si considera il risultato, cioè quanto lo studente ha imparato, e ci si disinteressa di quanto ci ha messo per impararlo. Eventualmente, a parità di risultato si ammira chi necessita di un carico di lavoro minore, perché più intelligente o più motivato. Non da noi. Da noi più fatica fai più bravo sei, a prescindere da quanto hai imparato. Si premia l'inefficienza.

È chiaro che in questo sistema la carne da cannone di cui sopra è avvantaggiata al momento della valutazione, perché farà una fatica enorme per passare un esame, rispetto a chi invece ha già delle basi e quindi deve solo approfondire alcuni aspetti. Alla fine chi produce un risultato migliore a costi inferiori viene valutato peggio di chi produce un risultato scarso o nullo a costi elevatissimi. E ancora, guardate che non mi invento niente. Tornando all'esempio dell'esame di latino, si è creato ufficialmente il doppio metro di valutazione: uno per chi non lo sa e uno per chi lo sa. In cosa consiste? Semplicemente, chi non ha mai fatto latino porta metà del programma, gli viene richiesta una conoscenza grammaticale da IV ginnasio e una conoscenza letteraria da I liceo. Chi invece conosce il latino e magari studia antichistica, fa lo stesso esame con lo stesso professore, però viene torchiato a dovere. Va da sé che chi viene da un istituto tecnico farà una fatica immane e non saprà niente, mentre chi viene dal classico farà meno fatica e saprà di più. Ma sul libretto, alla voce “Letteratura Latina”, lo studente che sa meno ha un voto uguale o superiore a quello che sa di più.

In aggiunta a tutto questo, alcune facoltà sono diventate il ricettacolo di chi non vuol far fatica. L'esempio abusato è quello di Scienze della Comunicazione. In ulteriore aggiunta, si sono inventati corsi di laurea apposta per laureare quante più persone possibile.

A questo punto, mentre di certo non si può negare che il mondo è cattivo, gli imprenditori sono cattivi, le leggi sul lavoro sono cattive, è anche vero che un numero enorme di persone sono state spinte a laurearsi a qualsiasi costo andando ad inflazionare una nicchia formativa naturalmente destinata a poche persone. Di conseguenza, chi ha studiato sul serio si è trovato un pezzo di carta in mano, reso inutilizzabile dal numero esorbitante di colleghi non preparati; mentre alla maggioranza degli studenti sono state instillate nella mente aspettative lavorative che non hanno riscontro nella realtà. È inevitabile quindi che al momento di trovare un lavoro, entrambe le categorie si trovino con esigue possibilità di successo e finiscano a fare lavori non qualificati.

Questo non si dice ai cortei contro il governo o alle messe in onore di San Precario, ma è una parte rilevante del problema ed è anche la parte più dolorosa del problema, perché non è bello scoprire a quasi trent'anni che nessuno li fuori ti vuole, se non per scopare marciapiedi e rispondere al telefono.

(continua)

Sì padrone, grazie padrone

Quelli della mia generazione sono cresciuti nella consapevolezza che il lavoro uno se lo deve cercare, che non importa quanto ci si è laureati, che tanto il lavoro non si fa aspettare. Le cause sono molteplici, ma l'importante è riuscire a capire cosa fare data la situazione reale.

C'è una fazione agguerrita dell'opinione pubblica che incolpa di ciò l'Italia, perché l'Italia non è come l'estero, dove queste cose non succedono e insomma si sa come l'estero sia meglio dell'Italia.

L'estero è grande, quindi è probabile che in qualche Paese le cose siano effettivamente molto migliori che in Italia. Quello che si vede qui in Germania invece non è per niente diverso da quello che c'è in Italia.

Il lavoro a tempo, le partite Iva, i lavoratori a progetto, tutte fattispecie contrattuali assolutamente presenti e che si manifestano nello stesso modo che in Italia: lavoratori dipendenti mascherati da autonomi, oppure lavoratori a tempo. Io stesso sono assunto con un contratto a tempo indeterminato da parte di un'agenzia di lavoro temporaneo, così come la grande maggioranza dei miei colleghi. Abbiamo lo stesso trattamento salariale e contributivo di un normale dipendente, ad eccezione del fatto che possiamo essere messi alla porta senza nemmeno doverci licenziare. Tuttavia, nonostante una legislazione pressoché uguale, il fenomeno del precariato non assume le forme estreme che conosciamo in Italia. Perché?

La cosa fondamentale è la diversa concezione del rapporto lavorativo. Da noi, dare lavoro è considerato un favore nei confronti del lavoratore, un debito morale che il lavoratore contrae nei confronti del datore di lavoro. In Germania, il rapporto di lavoro invece è visto per quello che è, cioè un rapporto di lavoro: il lavoratore lavora ed il datore di lavoro corrisponde del denaro in cambio. Non c'è nessun cascame morale o pseudoaffettivo.

Di conseguenza, quando un lavoratore è assunto come precario, lavora anche da precario: si presenta in ufficio se e quando vuole, produce se e come vuole, non si assume alcuna responsabilità se non quelle minime richieste. Dal canto suo, il datore di lavoro si aspetta esattamente questo. Non è una scelta morale o una strategia da sabotatore. È che funziona così e basta. Se si viene pagati poco e il lavoro non è garantito, non ci si prende troppo a cuore quello che si fa.

In Italia invece il precario lavora come e più del dipendente, nella speranza che il suo ottimo lavoro venga ripagato in futuro con un contratto. Poiché il rapporto di lavoro è inteso come uno scambio di favori, favore è l'essere stati presi, che va ricambiato con il favore di lavorare tanto per poco, che va ricambiato con il favore di essere assunti in regola. Questo nella mente del lavoratore. Nella mente del datore di lavoro, invece, succede che, a fronte dell'enorme favore di aver preso il lavoratore, ci deve essere eterna gratitudine, cioè molto lavoro pagato poco per sempre. Che poi, se il precario lavora come un matto per 800 euro al mese per uno, due, tre anni, per quale motivo il datore dovrebbe pagarlo di più per fare la stessa cosa? Io stesso ho conosciuto ragazzi precari che lavoravano come muli nella speranza di avere un contratto che non avrebbero mai avuto. Oppure si legge di persone precarie da 20 anni (di solito ricercatori o comunque persone altamente qualificate) che aspettano invano di essere assunti. Dopo vent'anni ancora non hanno capito che nessuno li assumerà mai.

Quindi, in Germania c'è una legislazione diversa da quella italiana? No. Sono i datori di lavoro più buoni di quelli italiani? No. Perché allora non sono tutti precari a 800 euro lordi al mese? Perché i datori di lavoro vogliono fare soldi e per fare soldi devono avere persone che lavorano bene e di cui si possono fidare. Un precario non corrisponde a questo profilo e quindi i precari si limitano ad essere o persone appena entrate nel mondo del lavoro oppure persone a cui va bene essere precario in cambio dell'assenza di responsabilità, di orari fissi e degli impegni tipici del lavoratore dipendente.

Invece in Italia i precari piangono, strepitano in piazza, fanno i comitati, ma poi ogni giorno vanno a ringraziare il datore di lavoro offrendosi come manodopera semigratuita. E aspettano. E l'unica cosa che sono riusciti a produrre è “San Precario”, casomai a qualcuno fosse venuto il dubbio che l'Italia non sia ancora il Paese dove si sgrana il rosario di fronte alla Madonna per avere buona salute e raccolto abbondante.