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Tutti i cretesi hanno una mappa

Insomma, ad essere onesti deve essere ormai trascorso qualche anno da quando ho avuto l'ultima discussione seria riguardo politica, religione, musica e un sacco di altre questioni. Non perché mi manchino gli interlocutori, ma è che mi è passata la voglia. Ci ho messo un po' a razionalizzarne il motivo, ma penso di esserci arrivato. 

Ora però voi non offendetevi per quanto sto per scrivere, tutto è inteso "esclusi i presenti", com'è costume. 

La voglia mi è passata perché dopo tante discussioni, in internet e nel mondo reale, mi sono reso conto che non c'era alcuna discussione - o dialogo - nel senso platonico: si poteva andare avanti per delle ore e mancava qualunque progresso dalle posizioni iniziali e una completa assenza di condivisione di almeno alcuni punti di partenza. Si può discutere se le orbite dei pianeti siano delle circonferenze con il Sole al centro oppure delle ellissi in cui il Sole occupa uno dei due fuochi, ma per farlo bisogna essere tutti copernicani. Se invece un tolemaico e un copernicano si mettono a dibattere la questione, senza nemmeno accorgersi della differenza di base, potranno andare avanti dei mesi a chiaccherare, ma non ne ricaveranno mai niente.

L'esempio dei copernicani e dei tolemaici lo faccio perché è il classico contrasto tra due opposte visioni del mondo, letteralmente. L'unica discussione che le due fazioni potevano avere consisteva nel convincere l'altro dell'errore e fargli cambiare idea. 

Tornando a noi: nel tempo mi sono convinto che le idee politiche, le idee religiose, la musica che si ascolta non sono altro che visioni del mondo. O meglio, sono una mappa della realtà nella quale si distingue ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per essere sicuri di stare sempre nel giusto. È ovvio, nessuno vuole stare nel torto e in qualche modo bisogna sapere come evitarlo. 

Così, quando qualcuno mi parla di politica, non mi sta esprimendo un'analisi della situazione politica in un dato contesto, ma mi (e si) sta dicendo invece: io voto x e quindi sono nel giusto, quindi sono giusto. Quando qualcuno mi parla di religione, mi (e si) sta dicendo: io credo in y e quindi sono nel giusto, quindi sono giusto. Quando qualcuno mi parla di musica, mi (e si) sta dicendo: io ascolto z e quindi sono nel giusto, quindi sono giusto. 

Ma lo stesso vale per qualsiasi cosa vi possa interessare: se entrare in un forum di appassionati di biciclette vedrete gli stessi meccanismi. Il fatto di andare in bicicletta diventa un filtro per interpretare il reale e, ovviamente, chi va in bicicletta si sente dalla parte del giusto, si sente giusto e migliore di chi non è dalla sua parte. Provate a vedere i forum o i blog di arti marziali: stessa cosa, io pratico la tale arte marziale, quindi capisco il mondo meglio di chi non la pratica, quindi sono migliore. 

Discutere di praticamente qualunque questione diventa impossibile, a meno che non si vada d'accordo a priori, per due motivi: primo, le visioni del mondo sono autoescludenti. Ma questo non sarebbe un grosso problema, perché in fondo ognuno la pensa come vuole e poi si va a bere una birra. Il vero motivo è che parlare di politica, per esempio, non significa parlare di una serie di eventi e dei loro esiti, ma mettere in discussione la mappa mentale dell'interlocutore, di conseguenza mettere in discussione la sua distinzione tra giusto e sbagliato, di conseguenza mettere in discussione la giustezza stessa dell'interlocutore.

Quando qualcuno vi parla di politica (o di religione, o di qualunque altra cosa), non vi sta parlando di politica, vi sta convincendo della sua giustezza in quanto essere umano. Per contro, se voi non siete d'accordo con lui, non state dubitando dell'idea politica che segue, ma della sua giustezza in quanto persona. 

Siccome tutti abbiamo bisogno di queste mappe mentali e tutti abbiamo bisogno di sapere che siamo nella parte giusta della mappa e che quindi siamo persone giuste, avere qualcuno che tenta di rimuovere quella sicurezza diventa destabilizzante. Non possiamo dubitare di essere nel giusto come persone, altrimenti tutta la nostra vita diventa senza senso.

Quindi io non discuto più con nessuno non perché pensi che gli altri hanno torto, ma perché mi rendo conto che significherebbe andare a mettere in discussione la loro persona e la loro consapevolezza del mondo e della realtà. Siccome non direi mai a nessuno che è sbagliato in quanto persona, io do sempre ragione a tutti, a prescindere, così almeno lo faccio contento e so che si sente meglio per avere qualcuno che la pensa come lui. 

L'unico problema di questo discorso è che ovviamente è a sua volta una mappa mentale che mi sono costruito io, per essere sicuro di essere nella parte giusta e quindi di essere giusto. E in sostanza, affermando questa idea, cado nel paradosso del mentitore: se tutte le visioni del mondo sono solo mappe mentali ad uso di chi le crea, anche ritenere che tutte le visioni del mondo sono una mappa mentale è una mappa mentale e pertanto se è vera la prima, non è vera la seconda; se è vera la seconda, non è vera la prima.

Il che dimostra che devo scopare di più e pensare di meno. 

La passione per la corruzione

Da appassionato di storia trovo che i periodi più affascinanti da studiare siano quelli tradizionalmente trascurati dai programmi scolastici e quindi al grande pubblico. Questi periodi sono quelli che nei manuali delle superiori vengono liquidati in poche battute, considerati momenti di passaggio tra un'epoca e la seguente oppure fasi terminali di processi più importanti: la storia della Grecia post-classica; le fasi finali dell'impero romano, comprese le cosiddette invasioni barbariche; la fine del paganesimo e l'avvento del cristianesimo. Esse sono conosciute in maniera superficiale e giudicate - generalmente - come la corruzione della situazione precedente che ha determinato la fine di un'epoca.

Per esempio è innegabile che esista una vulgata ben radicata, anche tra i banchi di scuola, che ritiene il tardo impero romano un luogo di corruzione e dissolutezza, il quale, corroso dall'interno, non ha potuto che crollare sotto i colpi delle popolazioni barbariche. Sul piano storico, questo giudizio è completamente privo di fondamento e tra gli specialisti è stato ormai abbandonato da tempo. Perché dunque rimane?

Innanzitutto perché la conoscenza storica destinata alla massa di studenti proviene dai programmi scolastici e nei programmi scolastici, tradizionalmente, la storia ha avuto un ruolo ideologico che è servito a creare una visione del mondo funzionale al presente. Così la Grecia classica è servita ai rivoluzionari francesi per far attecchire la propria ideologia democratica e libertaria, ma è anche servita alla Germania del secondo impero per creare la propria ideologia antidemocratica e autoritaria.  L'antica Roma è servita a dare un sistema di riferimento a tanti repubblicani risorgimentali italiani, ma anche a fornire al fascismo gli strumenti propagandistici atti a creare consenso.

Se lo scopo era creare, per mezzo della storia, una visione del mondo particolare che desse un quadro di riferimento ideologico alle masse di cittadini che dovevano riconoscersi in un passato comune, come è accaduto in Europa per tutto l'Ottocento e fino alla fine della seconda guerra mondiale, il messaggio della storia doveva essere semplificato il più possibile, in modo che fosse assimilabile da quanti più contadini, operai, fabbri, minatori, mondine, Fabi Voli panettieri possibile.

Insomma, come la Chiesa ha creato quella sofisticata architettura del pensiero chiamata teologia, ma alla massa del popolo ne riserva una versione semplificata all'estremo chiamata catechismo, così gli stati-nazione rielaborano la complessità della storia in un racconto che ha un'inizio, uno svolgimento e una fine ed è fatto di personaggi archetipici e topoi letterari predeterminati. Come la Chiesa ha un'elite di studiosi che non si cura di un vecchio uomo barbuto che dal cielo controllerebbe cosa fa la gente a letto, così gli stati hanno un'elite di accademici che non vede la storia in termini di periodi di apice seguiti da corruzione e morte. 

In questo processo di annacquamento della storia è stato inevitabile che alcune epoche siano state lasciate da parte e facilmente etichettate come periodi di corruzione e quindi inutili da approfondire: se teniamo a mente la storia di Roma, così parliamo di un argomento che più o meno conoscono tutti, è facile vedere che le fasi di cosiddetta corruzione sono in realtà periodi molto complessi sul piano politico, culturale e sociale e - in quanto tali - non possono essere facilmente spiegati in una scuola media o in un liceo classico, dove il fine era creare cittadini fedeli alla Patria e pronti a morire per essa.

Il programma scolastico medio, fino a qualche anno fa almeno, trattava la storia di Roma (come pure quella della Grecia), secondo il modello inizio-apice/periodo classico-corruzione-dissoluzione. Le fasi di inizio e di apice erano il veicolo dei valori positivi che si volevano trasmettere, mentre le fasi di corruzione e dissoluzione rappresentavano i valori negativi che distrussero quelle civiltà e che, non c'è bisogno di dirlo, minacciavano anche il presente.

Si ha gioco facile nel creare questo genere di contrapposizioni perché, di solito, i periodi di origine e apice di una società antica sono anche i periodi per cui le fonti sono più scarse, mentre per i periodi successivi le fonti sono molto più abbondanti. Così per la Grecia classica o per la Roma repubblicana le nostre conoscenze dipendono da poche tradizioni, schierate da una parte sola, che a loro volta erano nate per esaltare o silenziare i vari punti della storia. La storia delle origini di Roma e poi della repubblica è bellissima, ma non possiamo far finta di non vedere che quello che sappiamo è un racconto di una persona sola, che ha attinto a fonti ufficiali, con lo scopo di giustificare il principato e creare un'ideologia comune nell'elite dominante che ponesse fine lotte intestine che duravano da decenni. 

Grazie alla scarsità di fonti è inoltre molto più facile riempire i buchi con quello che sembra più adatto al fine educativo. Ma se di un periodo storico si conoscono molti più dettagli, diventa difficile ignorare che la società antica era anch'essa umana, troppo umana e per questo molto più simile al presente e molto meno esemplare. Per secoli la storia di Roma si è studiata leggendo Cicerone e Livio, ammirando la grandezza degli antichi, la loro moralità, il loro senso dello stato. Ma poi si è scoperta Pompei e si è visto che il romano medio non passava le giornate alle terme di bianco vestito discettando di iustum e utile e dibattendo sull'ambasceria di Carneade, ma preferiva frequentare i bordelli e discuteva di elezioni alla maniera di un beppegrillo qualunque.

Ma queste cose agli studenti non si possono dire. E allora gli si propina Attilio Regolo e l'abuso della pazienza di Catilina e si liquida il resto dicendo che ormai era un mondo corrotto, un paio di capitoli di Petronio per far vedere quanto corrotto fosse, invasioni barbariche e via col Medioevo.

Ma nel momento in cui non si concepisce la storia come una serie di modelli educativi per i giovani e invece si comincia a studiarla per il piacere di studiarla, allo stesso modo in cui si studia la natura per capire come funziona e non per trovare dimostrazioni a quanto Aristotele aveva scritto duemila anni fa, tutti quei periodi che sono stati bollati come corrotti diventano estremamente più interessanti.

La tarda antichità è un argomento che sto gradatamente cercando di approfondire e apprezzare. Il suo fascino è dovuto alla complessità della società sotto ogni punto di vista e alla disponibilità di fonti variegate che permettono di analizzare quel periodo sotto diversi punti di vista incrociati. Le invasioni barbariche non sono per niente "invasioni" pure e semplici, così come l'avvento del Cristianesimo non è un avvento. Sono entrambi processi che si svolgono nel tempo, coinvolgendo in momenti diversi strati della società diversi con esiti diversi.

Più che l'aspetto evenemenziale, che ritengo un sostrato necessario ma non sufficiente alla ricerca, ad interessare è lo scontro, l'incontro, la mescolanza di Weltanschaung che si presentano ancora come elementi distinti ma grazie ai quali si possono già cogliere gli sviluppi della società europea posteriore (graziati come siamo dal senno di poi). In un certo senso è come leggere un romanzo giallo in cui si sa già chi è il colpevole e ci si può dunque godere senza disturbo la storia di come l'assassino e il detective sono arrivati a quel momento, cercando di capire come ragionano, quali motivazioni li spingano, quali obiettivi cerchino di raggiungere.

Questa complessità tuttavia è praticamente irriducibile ad unità ed è di fatto impossibile parlare di quelle epoche credendo di averle comprese fino in fondo. La coperta della nostra interpretazione è sempre troppo corta e se cerchiamo di coprire per bene un'estremità, ne lasciamo scoperta quella opposta e siamo quindi costretti a muovere continuamente la coperta, o a trovare un compromesso che lasci fuori il meno possibile, consapevoli che qualcosa rimane sempre fuori.

Tutto l'opposto insomma della storia classica che ci insegnavano a scuola, dove gli antichi erano mostri di moralità e buon governo, che si muovevano in un tempo scandito dal progresso verso la perfezione e dal conseguente regresso verso la barbarie. Una storia fatta di uomini, di ingegneri che costruivano opere grandiose e di cafoni arricchiti che organizzavano banchetti di volgarità, di estremisti religiosi che credevano nella venuta della fine del mondo e reazionari che tentavano di mantenere in vita il corpo di una gloriosa tradizione culturale, di intellettuali che cercavano di conciliare la filosofia greco-romana con i principi di quella nuova eresia giudaica ormai egemone, di clerici trovatisi a rappresentare la gloria di Roma di fronte alla nuova classe dirigente che veniva da est, di insegnanti che si battono invano per far imparare una lingua che sta per diventare morta.

La cultura del mignolo alzato

Leggendo le pubblicazioni specializzate si percepisce che in questo periodo l'ossessione del mondo dei videogiochi è quella di apparire come un medium maturo che possa essere considerato alla pari con altri media, primo tra tutti il cinema. 

Il motivo di questa ossessione è chiaro: come io, nato e cresciuto in un ambiente relativamente lontano dalla cultura alta ho sentito il bisogno di colmare questa mia lacuna per non dovermi sentire un gradino più in basso degli altri, così il mondo dei videogiochi e la stampa di settore in particolare sono arrivati al punto in cui anelano al riconoscimento culturale da parte degli altri rami dell'intrattenimento. 

Ma come io, nel mio tentativo di colmare il presunto divario culturale, mi sono ritrovato a perseguire una formazione accademica che mi ha reso particolarmente difficile trovare un lavoro, così i videogiochi stanno imboccando una via che difficilmente giungerà a qualcosa di buono.

Allo scorso Electronic Entertainment Expo (per gli amici E3) è stato presentato un nuovo progetto che dovrebbe, negli intenti, portare il videogioco ad un livello di maturità superiore. Ecco la presentazione:


Da questo filmato si può capire cosa intendano gli sviluppatori e la stampa quando parlano di maturità del medium: palette di colori dominata dal nero, dialoghi à la detective Callahan, voci rauche à la Batman, combattimenti a mani nude tipo Matrix, girl power, superpoteri e temi come "la vita dopo la morte". Impressionante eh?

Se questo miscuglio di luoghi comuni della cultura pop è considerato il prossimo scalino verso la maturità dei videogiochi, l'asso nella manica da giocarsi per mettersi al pari col cinema e la letteratura, capite bene che la strada per un vero riconoscimento è ancora lunga e perigliosa. 

Tutti questi elementi sono, come detto, dei cliché, stereotipi che si possono incontrare in qualsiasi produzione precedente. Il ricorso ai luoghi comuni di per sé non è sbagliato, perché di fatto è impossibile non ricorrervi: una narrazione funziona per mezzo di determinati meccanismi e non usare quei meccanismi significa creare una narrazione orrenda. Il problema, e la vera forza di chi crea, è saper rimaneggiare i luoghi comuni per arrivare a qualcosa di mai visto prima. Riproporre per la milionesima volta scene di violenza, condite di dialoghi da superduri e con il personaggio femminile che dovrebbe ribaltare lo stereotipo della donzella in pericolo 15 anni dopo Buffy the Vampire Slayer non è nemmeno un esercizio di stile: è catena di montaggio, dove si assemblano pezzi e si produce su larga scala. Che va benissimo, ma non è il modo di creare un'opera culturalmente matura.

E quale potrebbe essere allora un videogioco che rappresenti il passaggio verso una produzione "matura"? Ce ne sono due che sono esemplari in questo senso, ma a cui nessuno mai penserebbe. Preparatevi... sedetevi... 

...

GTA: Vice City e GTA: San Andreas.

Per chi avesse vissuto su Marte negli ultimi 10 anni, questi giochi rappresentano due successi commerciali planetari. Il giocatore impersona un delinquente che si fa strada nel mondo del crimine per mezzo di una lunga fila di omicidi. Il gioco è ambientato in una città e i suoi dintorni, che possono essere liberamente esplorati, senza essere legati ad alcun vincolo predefinito. Il tratto fondamentale dei due titoli è il ricorso alla violenza, che viene così tanto caricata e espansa da superare il limite del grottesco e sfociare nel surreale.

Quello che però rende i due giochi interessanti è l'ambientazione. GTA: Vice City è ambientato nella Miami degli anni 80, mentre GTA: San Andreas nella California dei primi anni 90. Tuttavia la ricostruzione delle due città non è "filologica", per così dire, ma è la sintesi della cultura pop dei rispettivi anni. Quindi né Miami né la California sono ricostruzioni storiche dei loro equivalenti reali, ma una fusione degli elementi caratteristici della cultura pop di quegli anni: il risultato è un pastiche di riferimenti a film, telefilm, musica, programmi radio, automobili, abbigliamento dell'epoca, continuamente alternando tra parodia e omaggio a quegli anni.

Così in GTA: Vice City si trova tutto ciò che ha reso gli anni 80 quelli che ricordiamo: colori fluo, abiti pastello, musica elettronica, il pericolo sovietico... un concentrato di cultura pop in cui gli anni 80 sono più anni 80 degli anni 80. I tratti principali di quegli anni sono così tanto caricati da renderli iperreali e infine surreali. E lo stesso vale per GTA: San Andreas: le gang di neri e ispanici, i pestaggi della polizia, la Rivolta di Los Angeles, X-files, la musica rap...

Quello che rende i due giochi culturalmente interessanti (e ricordiamo che sono giochi vendutissimi, non roba di nicchia buona per i salotti bene) è che gli sviluppatori non hanno voluto rincorrere altri media sul loro piano. Coscienti di dover creare un gioco e non di scimmiottare il cinema, hanno deciso di inventare una formula propria, nella quale tutti i riferimenti culturali - tantissimi - vengono rimaneggiati per dar vita a qualcosa di nuovo. La prima cosa che si deve fare in GTA: Vice City è travestirsi da colletto blu, infiltrarsi in una manifestazione di operai e provocare disordini, in modo che lo sciopero fallisca. Nel gioco la situazione fa molto ridere, perché è un rovesciamento parodico dei valori comunemente accettati, ma il sottotesto è chiaramente radicato nella situazione - seria - del settore manifatturiero americano durante gli anni di Reagan.

Entrambi i giochi sono intessuti seguendo questa trama e ci riescono perché l'intento non è quello di creare un gioco "maturo", ma un gioco che sia divertente e che riesca ad esprimersi a diversi livelli di profondità. Infatti la serie di GTA è universalmente nota per essere caciarona, priva di senso, gratuitamente violenta, perché la maggior parte dei giocatori, quando vanno in mezzo a degli operai in sciopero con un martello in mano, non ha idea dei collegamenti con la situazione reale dei lavoratori americani di quell'epoca. Ma se si ha una conoscenza più approfondita, si può anche godere del gioco ad un ulteriore livello, senza intaccarne minimamente l'aspetto ludico e di intrattenimento.

Perché l'intrattenimento intelligente non è quello che tira gli spiegoni sul senso della vita e la direzione che sta prendendo il mondo, ma è quello che sa riconoscere i tratti salienti dell'immaginario collettivo e li mette a disposizione del fruitore nella consapevolezza dei propri limiti espressivi.

Ma ovviamente queste cose non le leggerete mai nella stampa di settore, perché chi scrive e parla di videogiochi si limita a vedere l'aspetto superficiale (OMG picchiamo gli operai LOL) in quanto carente dei riferimenti culturali generali che permettono un approccio diverso. Basta solo osservare con costernazione la sintassi delle recensioni dei videogiochi.

Conseguenza di questa incapacità di capire che il tono leggero e apparentemente sciocco è in realtà frutto di una complessa rielaborazione della cultura specifica del periodo è la richiesta di creare giochi maturi, intesi come prodotti seriosi in cui si tirano infiniti spiegoni su come la vita fa schifo e il mondo è una cloaca.

Così dopo GTA: San Andreas è uscito GTA IV, un pastone noiosissimo di cliché sulla vita degli immigrati dell'Europa orientale a New York, che non fa né ridere, né piangere, né pensare. Si tira fuori il luogo comune del sogno americano infranto e si continua con una lunga serie di eventi telefonati, visti e rivisti in tutte le salse. E non può che essere così: a meno che il gioco non venga prodotto da emigrati bosniaci con le pezze al culo, nessuno sa veramente mettersi nei panni di un povero cristo sbarcato clandestinamente a New York all'inizio degli anni 2000 e deve per forza di cose ricorrere a luoghi comuni presi in prestito qui e lì. Le poche parti degne di nota sono ad esempio una missione in cui si deve rapinare una banca: tutta la scena è in realtà un omaggio al film Heat di Michael Mann ed è un breve "ritorno alle origini" che purtroppo dura troppo poco.

Ma chiaramente questa svolta nella serie GTA è stata acclamata dalla stampa di settore, che ha applaudito al nuovo tono "maturo", perché per la stampa di settore la palette di colori scura e la storia-polpettone strappalacrime sono la forma che dovrebbe prendere la cultura "alta". Senza rendersi conto invece che è la forma che prendeva Anche i ricchi piangono.

Quando allora i giochi diventeranno culturalmente rilevanti, al pari del cinema e della letteratura? Quando saranno creati da e pensati per persone che sono già fruitori di cultura nel suo complesso, le quali non pensano che la cultura sia una cosa noiosa dove la gente è tutta seria e si parla solo di amore, morte e filosofia politica. Ricordiamoci che noi impariamo molto di più dalla commedia che non dalla tragedia riguardo alla vita nell'Atene classica, perché una società è fatta di sberleffi e scoregge più che di sovrani che si accecano e sorelle che raccolgono i corpi in putrefazione dei fratelli.

Lunga e noiosa dissertazione sull'origine delle differenze tra Italia e Germania

Una costante del mio parlare della Germania agli italiani è cercare di spiegare perché io non ritenga che noi siamo un popolo di incivili, mentre contemporaneamente ammetta che in Germania le cose funzionano oggettivamente meglio (tanto che vivo qui per scelta e non per bieca necessità). Allora ho pensato di mettere giù due righe e spiegare questo fatto. 

Premessa importante: questo è un blog, quindi va preso per quello che è. Scrivo quando posso, di sera, nei ritagli di tempo se il lavoro per quel giorno non mi ha mandato in pappa il cervello. Quello che scrivo riflette i miei interessi, quindi le spiegazioni che mi do di solito si fondano su una selezione di tutti i dati disponibili. Ergo quello che si leggerà qui è parziale, monco, non può e non deve essere considerato una spiegazione esaustiva della materia che vado a trattare.

Bene, ciò detto, perché io vado in giro a ripetere che i tedeschi non sono più civili di noi mentre le cose in Tedeschia funzionano meglio? Ordunque la risposta che meglio mi aggrada è di ordine storico. 

Seconda premessa importante: ho scelto di fare un discorso ad ampio respiro che, in quanto tale, non tiene conto di tutti i particolari. Quello che qui sembrerà un movimento armonico e univoco, nella realtà fu un processo complesso e anche molto sofferto, incoerente e inorganico, pieno di spinte e controspinte, che vanno inevitabilmente a perdersi mano a mano che il punto di vista dell'osservatore si allontana da esse. 

* * *

La Germania unita è una nazione relativamente giovane, circa quanto l'Italia. Come l'Italia, è stata prima di tutto un'idea politica fondata sull'unità linguistica e culturale che ha preceduto la sua realizzazione pratica. Come l'Italia, è il frutto dell'espansione territoriale di uno dei tanti stati che componevano i territori germanofoni; in Italia è stato il Piemonte, in Germania la Prussia. Addirittura con l'Italia la Germania condivide una parte decisiva dei rispettivi processi di unificazione: il 1866, quando Regno d'Italia e Prussia sconfiggono l'Austria-Ungheria (cioè, l'Italia venne sconfitta a Custoza, ma la Prussia vinse a Sadowa, quindi noi abbiamo vinto per la proprietà transitiva delle battaglie. Passata alla storia come Terza Guerra d'Indipendenza).   

Io credo che le differenze tra Italia e Germania nascano a questo punto, a unità raggiunta. Terza premessa al mio discorso: sono convinto che in qualsiasi comunità/società/gruppo umano la direzione che il gruppo prende sia determinata dalle elite che governano quel gruppo: che sia un club di modellismo, un'azienda quotata in borsa, uno Stato, la minoranza che sta al potere determina gli esiti di quel gruppo, mentre la maggioranza vi si adegua. 

Quando la Germania nel 1871 compie il processo di unificazione e fonda l'Impero Tedesco (Deutsches Kaiserreich), le elite di governo hanno carta bianca, perché non esiste un manuale di management dell'unificazione che spieghi passo passo cosa fare quando si deve governare una nazione appena creata. La situazione allora era questa: uno Stato nuovo nato dalla fusione di differenti monarchie, ognuna con la propria organizzazione e burocrazia; abbondanza di risorse naturali (carbone, acciaio, eccetera); un sacco di nazioni intorno che non sono contentissime della nascita di questo impero. 

In questo contesto la Germania si muove in tre direzioni: creazione di un esercito efficiente sul modello prussiano; creazione di una burocrazia statale efficiente; creazione di scuole e università e promozione della cultura in tutti gli strati della popolazione. Ora, l'esercito in questa sede non interessa, perché l'attenzione sarà rivolta agli altri due aspetti.

Il Reich inizia subito ad investire massicciamente nella cultura. Il tasso di analfabetismo inizia a scendere costantemente, fino a raggiungere i livelli più bassi dell'Europa del tempo. Allo scoppio della Grande Guerra gli analfabeti tra i soldati tedeschi sono un numero drammaticamente inferiore rispetto a quello dei soldati italiani. Non solo, nella Germania postunitaria il numero di università che vengono fondate è incredibilmente alto. Il tradizionale concetto di università valido fino ad allora viene modificato e sorge l'università moderna così come noi la conosciamo e così come noi riteniamo debba essere.

Contemporaneamente il nuovo Stato unitario comprende la necessità di costruire un apparato burocratico che funzioni e si rende conto che la macchina statale non è fatta di regole, ma di persone e che è necessario che ogni singola persona che fa parte di quel meccanismo non lo intralci e non metta il proprio interesse o il proprio comodo di fronte al bene della burocrazia. È dunque necessario formare i membri dell'apparato statale in funzione del nuovo ruolo che andranno a ricoprire e per fare ciò è necessario creare una nuova fedeltà allo Stato che soppianti i legami di sangue o di relazioni preesistenti.

Questo duplice approccio - educare la popolazione e creare una classe di funzionari pubblici fedeli allo Stato - si rivela la scelta giusta e i frutti si vedono subito. È nell'impero tedesco che comincia la seconda rivoluzione industriale, è qui che si gettano le basi per la creazione del mondo contemporaneo, sia sotto il punto di vista culturale che sotto quello tecnologico. A partire da questo momento la Germania diventa un faro per la cultura occidentale. Per avere un quadro completo dello straordinario impulso tedesco alla scienza e alla tecnologia dal 1871 a oggi, troppo spesso ignorato o sottovalutato per colpa di quei maledetti 10 anni di dittatura, consiglio di leggere un libro uscito due anni fa: P. Watson, The German Genius: Europe's Third Renaissance, the Second Scientific Revolution, and the Twentieth Century, New York 2010.

Come si vede, le scelte della Germania o - per meglio dire - della sua classe dirigente, sono state opposte a quelle della classe dirigente italiana postunitaria. Lì si è percorsa la strada dell'alfabetizzazione di massa, qui si sono tenuti gli italiani a livelli di analfabetismo altissimi fino agli anni 60 del Novecento. Lì si sono formati e allevati funzionari pubblici fedeli allo Stato e alle sue leggi, qui si è lasciato che l'amministrazione pubblica rimanesse impigliata nella rete di relazioni e interessi privati che esistevano da prima. È una questione di mentalità. In Italia si pensa che la cultura sia strumento di emancipazione del singolo o della classe rispetto alla società e al potere costituito. Si è sempre ritenuto che educare la popolazione fosse la ricetta giusta per la rivoluzione (e quanti di noi non pensano che "loro" preferiscono avere una popolazione ignorante e malleabile e che non ci vogliano far studiare perché altrimenti saremmo una minaccia?) In Germania invece si è capito che l'istruzione è la strada maestra verso l'integrazione nella società e la fedeltà allo Stato, sia dei funzionari pubblici (soprattutto loro) sia della popolazione. E infatti - per fare alcuni esempi - il Regno d'Italia era una fucina di terroristi e anarchici, mentre nel Reich si sviluppò prestissimo la socialdemocrazia e le idee marxiste e rivoluzionarie vennero abbandonate relativamente in fretta. Quando il fascismo pretese dai professori universitari il giuramento di fedeltà, si rifiutarono nemmeno in venti. Quando il nazismo prese il potere, i professori tedeschi diedero una mano a portare in piazza i libri da bruciare.

A questo punto si potrebbe avere l'idea che la Germania fosse un Paese democratico o quanto meno aperto alle istanze popolari. Ebbene, fu l'esatto contrario! Mentre l'Italia cercò di mettersi nel solco della democrazia parlamentare inglese e francese, la Germania volutamente e coscientemente rifiutò quella tradizione e scelse per sé una strada tutta sua, un modo originale e diverso di organizzare la società e la politica, che venne da subito definito Sonderweg (strada/via speciale/diversa da quella delle potenze democratiche e dello zarismo russo).

Quando nel 1849 a Francoforte il primo parlamento tedesco offre al re Federico Guglielmo IV di Prussia la corona della Germania, egli la rifiuta: il trono dell'impero tedesco non deve essere legittimato dal popolo, poiché quello che il popolo dà, il popolo può togliere. Il senso di superiorità dell'aristocrazia rispetto al popolo e ai borghesi rimarrà costante per tutta la durata del Reich. Ad una nobiltà di sangue corrisponde una nobiltà di cultura e sapienza che è esclusiva delle elite di potere tedesche.

Esistono due parole per definire il termine 'cultura': Kultur e Zivilisation. La differenza tra le due è gerarchica: Kultur sta in alto, è il sapere intellettuale; è "nobile", per così dire. La Zivilisation sta un gradino più in basso e pertiene agli aspetti più pratici e "materiali" dell'esistenza. È utile, ma meno pregiata. Per l'elite tedesca dell'epoca, le altre nazioni non andavano oltre la Zivilisation, perché solo la Germania poteva esprimere Kultur.

Specularmente il sistema educativo tedesco teneva conto di questa gerarchia dei saperi. La divisione tra cultura alta e cultura bassa era netta. In alto stava la speculazione intellettuale che si fondava sulla tradizione dell'antichità greco-romana, in basso stavano le discipline tecnico-scientifiche. Ciò che rende affascinante l'esperienza tedesca è che questo bipolarismo, questa sfacciata gerarchia dei saperi (così contraria al sentire contemporaneo) ebbe come risultato che sia la cultura "alta" che la cultura "bassa" crebbero come in nessun altro luogo in quel periodo.

Tanto fiorirono gli studi classici (il secondo Rinascimento di cui scrive Watson si riferisce precisamente alla riscoperta dell'antichità, simile a ciò che era accaduto in Italia con il Rinascimento) quanto la scienza e la tecnica. Ma come è stato possibile?

In un certo senso, gli intellettuali tedeschi decisero di rinchiudersi nella torre d'avorio. Apposta. Per non mischiarsi con la volgarità mondana. Tuttavia vollero per loro la miglior torre d'avorio possibile e quindi vollero circondarsi dei migliori ingegneri, tecnici, muratori, idraulici. Gli intellettuali fornirono le scuole e le università, i tecnici conoscenza pratica. Gli intellettuali non intendevano fare proselitismo culturale e si disinteressarono alle questioni spirituali di chi stava fuori dalla torre e i tecnici accettarono di non intromettersi nelle decisioni prese dentro la torre (anche se gli intellettuali non potevano sapere che di lì a poco i tecnici, dopo aver costruito loro la torre d'avorio, li avrebbero chiusi dentro sbarrando la porta dall'esterno).

Perché oggi parliamo di quello che è successo in Germania non il secolo scorso, ma quello prima ancora? Perché oggi in Germania ancora si sentono gli effetti di quelle scelte così lontane nel tempo. L'apparato burocratico funziona, perché chi vi entra è stato istruito e selezionato con attenzione. Per fare un esempio, chi vuole fare l'insegnante deve - dopo la laurea specialistica - sottoporsi a due anni di tirocinio che, nelle parole di un mio amico, assomiglia all'addestramento dei soldati prussiani: prima ti smontano, ti depurano di tutto quello che credi di sapere, poi ti rimontano secondo gli standard richiesti. Alla fine dei due anni, il posto di lavoro non è assicurato, bisogna trovarse una scuola che ti accetti. E quando arriva il contratto, il futuro insegnante deve, tra le altre cose, sottoporsi a visita medica che accerti l'assenza di malattie invalidanti che mettano a rischio di pensionamento anticipato, che lo Stato tedesco non ha nessuna intenzione di darti lo stipendio per 10 anni e poi pagarti la pensione e i sussidi di malattia per i restanti 50.

Questo sistema non crea genii, crea "semplici" lavoratori preparati. Tiene lontani quelli che vorrebbero fare l'insegnante solo per avere un posto statale blindato a vita o che siederebbero in cattedra per mancanza di alternative o capacità in altri settori. Due anni di tirocinio non si fanno se non seriamente motivati, e già questo produce una scuola migliore rispetto a quella italiana.

Per entrare in polizia bisogna aver studiato. A scuola proprio. Bisogna essere preparati e seri. Non si va in polizia per scappare dalla disoccupazione, perché per questo ruolo lo Stato non vuole avere gente che non è riuscita a trovare nemmeno un lavoro come cassiere al McDonald's. Non è il mio pensiero, è il modo in cui ragiona la burocrazia tedesca. Lo stesso vale per tutti i dipendenti pubblici: l'impiego statale non è un ammortizzatore sociale.

Allo stesso modo per trovare lavoro nel settore privato è necessario aver studiato. Magari poco, ma bisogna aver studiato. Per andare a guidare il muletto in un magazzino servono mesi di tirocinio, così come per qualsiasi altro lavoro che noi considereremmo poco qualificato.

Il sistema educativo, invece, è estremamente diversificato. Mentre in Italia siamo ancora fermi alla polarizzazione liceo-università-laurea da una parte e istituto-tecnico-dove-sbattere-quelli-che-non-si-vogliono-laureare dall'altra, in Germania esistono molte più passaggi intermedi tra gli estremi di chi va a lavorare a 15 anni con il minimo di scolarizzazione e chi si dedica alla ricerca speculativa pura. Perché, visto che non siamo più nell'800, la maggior parte dei lavori richiedono conoscenze specifiche, pratiche ma intellettuali, che si devono insegnare dopo il liceo ma che non richiedono 5 o 6 anni di studi teorici.

Quando mi chiedono se in Italia non possiamo essere come in Germania, rispondo di no. Ma non perché i cittadini tedeschi siano antropologicamente diversi da noi, perché non è così. È che il sistema complessivo è radicalmente diverso. E se lo applicassimo da noi così come è succederebbe in finimondo, ma non per modo di dire.

La quasi totalità dei dipendenti pubblici italiani semplicemente non avrebbe le qualifiche per lavorare, ad esclusione di qualche categoria particolare come medici e infermieri. Se tra i lettori di questo blog ci sono dei dipendeni pubblici, sappiate che - con le qualifiche che avete - non potreste lavorare.

Potremmo cambiare col tempo? No, non credo. Perché. a differenza della Germania di Bismark, oggi l'azione politica e di governo ha bisogno del consenso popolare e il consenso popolare impedirebbe di cambiare la struttura portante del nostro Paese. Vi immaginate un partito che fa campagna elettorale con la promessa di modificare il pubblico impiego in modo che l'accesso filtri ed elimini gli elementi peggiori? Vi immaginate un partito che fa campagna elettorale promettendo di rendere incredibilmente più difficile trovare un lavoro da statale? Io no.

Si poteva fare ad Italia appena unita, quando in ogni caso il governo non si faceva problemi a  cannoneggiare la folla, mandare l'esercito contro i briganti e deportare quelli a cui non stava bene il nuovo corso degli eventi. Purtroppo all'epoca non avevamo la classe dirigente della Prussia e l'occasione è andata persa. Oggi la classe dirigente viene selezionata in base alla capacità di raccogliere consenso e niente di quello che ha reso la Germania quello che è si può fare con il consenso, tutt'altro.

Grammatica

Attenzione, il post che segue è per sfigati. Vale la regola “sfigato chi legge”. Quindi chi non vuole diventare sfigato non prosegua.

La cosa più difficile nel processo di apprendimento del tedesco è la mia formazione umanistica. Avendo studiato a livello accademico italiano, latino e greco, ho la mia visione della lingua, che naturalmente è quella giusta. Per me le lingue hanno sempre funzionato in maniera concettualmente semplice: ci sono i predicati, i complementi, le concordanze tra sostantivi e aggettivi e così via. Significa che per comporre una frase imparo una regola teorica generale, in base alla quale faccio derivare i casi particolari.

Se il soggetto è singolare, dovrò usare il verbo al singolare; se il soggetto è femminile, dovrò adottare gli aggettivi al femminile. In questa operazione non interferisce la morfologia dei singoli termini. Cioè, casa e televisione hanno suffissi diversi, ma l'aggettivo seguirà la sua propria declinazione, sordo ai lamenti delle prime. La casa sarà gialla, ma anche la televisione sarà gialla. Perché il femminile singolare di giallo è gialla e così sarà sempre in saecula saeculorum.

Lo stesso vale per i complementi: quando ho imparato che i vari casi hanno funzioni diverse e che ogni preposizione accompagnata da un caso costruisce un determinato complemento, mi è indifferente quale verbo sto usando, in quale conesto e via dicendo.

Da quando studio tedesco tutto questo non c'è più. Perché vi dicono che il tedesco è come il latino, ma non è mica vero. Almeno, così come te lo insegnano non assomiglia per niente al latino. Caso banale: in latino (ma anche in greco), il genere ed il caso di un sostantivo si ricavano dal suffisso. Lupus è maschile perché -us è l'uscita del nominativo maschile singolare; casa è femminile perché il suffisso -a è femminile. Punto.

In tedesco, il genere del sostantivo è una convenzione dei parlanti che non ha alcun riflesso nella flessione del sostantivo stesso. Per cui qualsiasi parola è potenzialmente di qualsiasi genere, a meno che per esperienza il parlante non conosca il genere. Cioè il sostantivo si rifiuta di dirvi di che genere è. È come se non fosse possibile stabilire se un sostantivo sia singolare o plurale, se non sapendolo a priori.



Allo stesso modo, i famigerati verbi tedeschi sono, apparentemente, privi di una logica formativa interna. In teoria, funzionano come il greco: prefisso+verbo, in cui il prefisso modifica il significato del verbo. Solo che in greco la modifica avviene secondo una logica che, se non evidente, per lo meno si può apprendere, quindi una volta che si conosce il significato dei prefissi e dei verbi semplici, è facile ricostruire il significato dei verbi composti (non chiedetemi esempi, il Rocci è inscatolato in Italia).

In tedesco è così, ma anche no. Per dire, laden vuol dire circa caricare (inglese: to load); herunter-laden significa scaricare, nel senso di to download, e qui ci siamo, perché herunter significa giù, sotto; ma ein-laden vuol dire invitare.

Il problema poi è che nella didattica vengono ignorate le regole che ci si aspetterebbe di trovare, e ne vengono introdotte altre apparentemente più semplici, ma che nel lungo periodo si rivelano sbagliate. Per esempio, vi spiegano che il verbo va sempre nella “seconda posizione”. Così la frase “io mangio una mela a merenda”, può diventare “una mela mangio io a merenda”, oppure “a merenda mangio io una mela”; ma non potrà essere “a merenda io mangio una mela”, perché il verbo in questo caso occupa la “terza posizione”. Già in questa semplice frase si capisce che la regola della “seconda posizione” fa acqua, perché in “ a merenda mangio...” il verbo è, a rigor di logica, in terza posizione. Ma quando la frase diventa più complessa, la regola diventa inutile. Vediamo:

Yukiko vive in una casa danneggiata dal terremoto dello scorso Marzo insieme ai genitori.

Il tipico esercizio che si fa a scuola è quello di invertire l'ordine degli elementi, per imparare a posizionare il verbo. La frase in tedesco può essere così riordinata:

In una casa danneggata dal terremoto dello scorso Marzo vive Yukiko insieme ai genitori.

In che posizione è il verbo? In “seconda”? A me pare sia in decima posizione. Invece no, è in seconda, a patto che riformuliate la regola: il predicato verbale deve essere preceduto sempre dal solo soggetto (insieme ad eventuali complementi da esso dipendenti) oppure da un singolo complemento (insieme ad eventuali complementi da esso dipendenti). Sottigliezze? Forse, però una volta enunciata la regola come fanno a scuola, ogni singolo studente formula la frase così:

*In una casa vive danneggata dal terremoto dello scorso Marzo Yukiko insieme ai genitori.

Che è sbagliata in tedesco, ma aderisce perfettamente alla regola del verbo in seconda posizione. Il problema è che manca il concetto di complementi, da cui deriva un metodo di insegnamento che trovo difficilissimo da seguire. La cosa si complica con i verbi, perché (così come per il genere dei sostantivi) è necessario imparare a memoria con quali preposizioni si accompagnano. Stando a quanto insegnano a scuola, non c'è modo di astrarre una regola generale grazie alla quale sia possibile prevedere il caso particolare.

Parlare con gli insegnanti non aiuta, perché ho scoperto che nemmeno a loro, a livello accademico, viene insegnata la grammatica che noi impariamo alla scuola dell'obbligo. Per esempio, non conoscono la differenza tra tempo e modo verbale. Una volta, un esercizio richiedeva di sottolineare tutti i verbi al presente di un testo. Per me è stato ovvio sottolineare anche l'infinito presente, perché appunto verbo al presente. Ho dovuto litigare con l'insegnante perché secondo lui l'infinito è in opposizione al presente. Se un verbo è al presente, non può essere all'infinito.

Ovviamente per lui presente significa “indicativo o congiuntivo presente”, perché nel libro di scuola non esistono tabelle con i tempi verbali dell'infinito (anche se ovviamente l'infinito passato esiste).

Altro punto sensibile per gli insegnanti è il passivo. Non c'è verso di far capire loro che le frasi “Mario mangia la mela” e “la mela è mangiata da Mario” hanno lo stesso identico significato. Anche in questo caso, mi sono trovato a discutere animatamente per imporre la ragione, alla quale è stato infine addotto come controargomento il binomio “la signora delle pulizie lava il pavimento” - “il pavimento viene lavato dalla signora delle pulizie e non dal portiere”.

Al che ho capito che è proprio una carenza formativa. Persino a livello universitario la lingua viene insegnata non a livello astratto in base a meccanismi razionali, ma come semplice messa in pratica di nozioni acquisite di volta in volta con l'esperienza. Da qui ne risulta l'incapacità di distinguere tra forma e significato, tra modo e tempo, tra elementi della frase e posizione degli elementi. Poiché l'infinito non ha una tabella di flessione temporale divisa per persona, nell'infinito non viene percepita la presenza di un tempo. Ciononstante, l'infinito passato viene usato senza problemi quando necessario, perché la pratica quotidiana priva di rigida teorizzazione astratta permette di far convivere teorie che si negano a vicenda.

Così per me imparare il tedesco è doppiamente difficile, perché l'unico metodo è quello di imparare pedissequamente a memoria il genere di ogni singolo sostantivo, la preposizione che segue ogni singolo verbo eccetera. Solo che non sono convinto che la lingua tedesca funzioni in questo modo demente. Manca solo una astrazione razionale del suo funzionamento. Ora, se qualcuno dei lettori ha studiato tedesco in Italia, magari ha sperimentato un metodo diverso. O magari lo ha studiato a livello accademico e ne sa più di me e io sto sbagliando tutto. Però devo trovare il modo di uscire dalla situazione in cui sono, in cui mi rifiuto di fare certi esercizi perché sono totalmente privi di basi razionali.


Leggi che diventi grande/1

Questo è uno screenshot preso dalla pagina del mio Google reader.



Le cartelle contengono i feed ordinati per argomento. Ignorate i nomi: se mi sono messo a ordinare i miei feed in cartelle e per argomento significa che quel giorno ero molto molto annoiato. Di fianco ai nomi ci sono dei numeri in grassetto, che indicano quanti elementi non letti ci sono in ogni cartella.

Un semplice colpo d'occhio rivela quali siano le mie priorità di lettura. Leggo con costanza i blog personali; con costanza quasi pari leggo notizie sui videogiochi; poi a seguire perdo tempo con i siti che mi fanno ridere; seguono le notizie su Ubuntu; infine rimangono praticamente intatte le notizie vere e proprie, l'informazione così come la si intende generalmente.

Quel “1000+” – tendente all'infinito – ha lasciato stupito più me che voi. Essendo nato e cresciuto nell'epoca precendete all'internet di massa, sono stato educato a “leggere il giornale”. Leggere il giornale era considerato un atto dovuto per chi si considerasse una persona intellettualmente attiva. Leggere due o tre giornali era prerogativa degli intellettuali veri e propri. Leggere il giornale a scuola o all'università era simbolo esteriore di serietà ed intelligenza.
Sì.
Quando la stampa estera è diventata ampiamente accessibile grazie a internet, mi ci sono dedicato con intensità. In fondo i quotidiani mi avevano insegnato a considerare la stampa estera e specialmente anglosassone la forma sublime di giornalismo. Da un lato mi è stato possibile accedere e comparare un grande volume di notizie di stampa in un arco di tempo ridotto e a costi quasi nulli, dall'altro ho potuto vedere il tipo di lettori e capire in che modo si approcciano alla notizia (quando si legge un quotidiano non è possibile sapere cosa pensano gli altri lettori, grazie ad internet si ha subito un'idea sulle reazioni suscitate da un articolo).

Essendo possibile questa visione accelerata e onnicomprensiva del modo in cui i media funzionano, è anche molto più facile comprenderne le dinamiche che, nel mondo tradizionale, erano così lente e così grandi da rimanere al di fuori del campo visivo del lettore medio quale sono io. Questa triangolazione di prospettiva tra produttori di notizie, fruitori di notizie ed effetti prodotti dalle notizie mette in luce la natura dell'informazione.
Classica è una vignetta che non ha mai
finito di dire quello che ha da dire.

L'informazione è un bene che viene prodotto e viene offerto a chi lo vuole in cambio di un altro bene. È una forma di mercato, insomma. Ma prima che partano i commenti sbroccotronici, vediamo di fare chiarezza. Una considerazione del genere non ha valore positivo o negativo, ma di semplicemente di osservazione.

Ora, se considero la mia pagina di Google reader, non mi sorprende vedere che di fatto non leggo più quotidiani. Per quanti giornali leggessi, non sono mai riuscito a prevedere nulla di importante accaduto nel mondo. Mai. I giornali, pur offrendomi una mole enorme di informazioni, non mi hanno mai offerto notizie significative. Quello che mi vendevano era una visione del mondo: il lettore paga per vedere confermata la propria idea sulla realtà, e questo vale allo stesso modo per il lettore di Repubblica o del Times, per chi guarda Rai3 o FoxNews. Poiché a me non interessa vedere confermata la mia visione del mondo, ma avere informazioni abbastanza dettagliate per potermi muovere, ho smesso di leggere la stampa tradizionale. Ho smesso di girare con 15 quotidiani internazionali sotto il mouse e indovinate? Non è cambiato niente né della mia visione del mondo né della mia capacità di affrontarlo.
Quanti editoriali servono per cambiare
la tua visione dell'universo?

L'informazione è dunque tutta così? No, perché l'offerta è diversa a seconda della domanda. Prendiamo le altre voci dei miei feed. Per usare Ubuntu ho bisogno di consigli e informazioni su come farlo funzionare a dovere, le trovo in quei siti e posso vedere i risultati in pratica. Mi piacciono i videogiochi, che però costano: vado nei siti dove trovo le informazioni giuste per scegliere un videogioco e non buttare via i soldi.

E perché leggere i blog? Con blog intendo quelli personali, amatoriali, non siti commerciali che hanno la forma esteriore del blog. Li trovo altamente informativi perché si pongono all'opposto dei quotidiani, sono esplicitamente soggettivi e si interessano di realtà vicine a chi scrive. Offrono uno spaccato di una realtà così come viene vista dall'autore, mi fanno conoscere libri che val la pena di leggere e film da guardare la sera.

E dove sta lo scambio? Per i quotidiani è il denaro, ma per gli altri? Solitamente, i siti di videogiochi e passatempi mi offrono notizie in cambio di una mia visita, che si traduce poi nel valore degli spazi pubblicitari da vendere. Chi scrive riguardo ad Ubuntu lo fa perché vuole si diffonda l'uso di Ubuntu medesimo: loro mi aiutano ad usare Ubuntu, in cambio io partecipo alla diffusione del “loro” sistema operativo. I blog di solito vogliono in cambio di essere ascoltati e di ricevere dagli altri quello che loro offrono per primi.

Il sito su Ubuntu mi dice “leggimi e troverai consigli su come far funzionare la tua scheda video e su quale lettore multimediale installare”; ma non mi dice “leggimi e poi vai a discutere con Linus Torvalds su quali linee di codice cambiare”. Mentre il quotidiano mi dice “leggimi e saprai cosa sta succedendo nel mondo” quando con le informazioni che veicola non si è in grado di prevedere sconvolgimenti storici come quelli che stiamo vedendo questi giorni in Africa e Vicino Oriente.

Non c'è dolo da parte dei quotidiani. È la nostra società ad attribuire un valore esagerato all'informazione massmediatica; è la società nel suo complesso che insegna il dovere di “leggere il giornale”; è la società che stima chi gira per strada con “due quotidiani sotto il braccio”; è la società che ritiene giusto che la scuola dell'obbligo educhi a leggere i giornali come se da questo dipendesse la loro capacità di interagire con la realtà.

Se le informazioni fossero una mappa, i quotidiani sarebbero gli antichi planisferi: al centro c'era quello che si sapeva già (dove sono la Grecia, Roma, i Parti...) e tutt'intorno gli Iperborei, i leoni e l'oceano sconfinato tra Europa e Asia. Così un antico guardava il planisfero e credeva di sapere come era fatto il mondo, mentre quella roba lì non la usava per muoversi nei territori noti ed in più credeva di star piantando la bandiera dei re di Spagna sul suolo indiano quando invece aveva inzuccato un intero continente di cui non aveva nemmeno immaginato l'esistenza. Però cavolo, quanto si vantava di essere colto...
" 'zzo dici, vecchio?
Sapevano già tutto nel 3000 a.C."

Un buon sito di videogiochi o di trucchi per usare Ubuntu è come gli schemi della metropolitana: un po' di linee colorate che si intersecano. Tu lo sai che la città non ha quell'aspetto, però grazie a quelle linee arrivi sempre a destinazione. Ma soprattutto, non ti sentirai in grado di discutere con l'Amministratore Delegato della Metropolitana per il solo fatto di essere sceso alla stazione giusta.

Dalle stalle alle stelle

Per fortuna sono nato abbastanza tardi da perdermi certi dibattiti sulla cultura-cultura contro la cultura massificata. Dico fortuna perché ad esempio so che all'epoca fece un certo scandalo tra i circoli intellettuali la nascita della collana BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), cioè una serie di pubblicazioni di classici della letteratura e della saggistica in formato tascabile a basso prezzo. Ciò era male, perché avrebbe portato alla massificazione del sapere, all'inflazione del suo valore, allo svutamento di ogni significato.

Siccome i circoli intellettuali hanno smesso di capire qualcosa ai tempi del Risorgimento, le collane economiche si sono invece moltiplicate e questo è stato solo un bene. Da adolescente [sfigato qual ero] io spendevo mille o duemila lire e mi portavo a casa capolavori, mentre i miei amici spendevano dieci, venti, quando non cento volte tanto per musica e videogiochi. Costavano così poco che valeva la pena di prenderli, sti libri, che se tanto non ti piacevano non ci avevi perso niente. Per non parlare della BUR, che ho usato per tutta la carriera universitaria come fonte unica di accesso a testi antichi e meno antichi.

Poi c'è la famosa critica al Signore degli Anelli: siccome il libro non era gradito a certi intellettuali, essi lo avevano bollato come “fascista”. Che per alcuni funziona un po' da insulto universale: quando vogliono esprimere l'abiezione totale, dicono “fascista”. Non ho mai capito se invece i neofascisti che si rifacevano a quel libro lo facessero come reazione a questa critica o per iniziativa propria ed indipendente. Ma non ho mai approfondito: in fondo non sono mai riuscito ad andare oltre le cinquanta pagine del libro, non so neanche di cosa stiano parlando.

Per non dire dei fumetti, o degli anime.

Oggi siamo al salto generazionale e gli allora giovanissimi che hanno sfidato quegli sciocchi pregiudizi si stanno avviando verso la strada dell'imbolsimento, in modo da perpetuare quei vecchi ragionamenti, solo che da una prospettiva speculare. Così tutto quello che era considerato cultura massificata, fascista e piccolo-borghese, adesso diventa capolavoro assoluto, vetta eccelsa, punto di non ritorno. Anche se è una canzonetta pop, anche se è un filmetto da quattro soldi. Basta che una volta non piacesse che oggi piace.

Gli eroi dei fumetti, tipo Batman, erano considerati fascisti perché l'uomo forte eccetera eccetera. Oggi sono descritti come pietre miliari che incarnano lo spirito del tempo. Si fa fatica a trovare qualcuno che dica “mah, a me Batman sembra la storia inverosimile di un ricco disturbato che va in giro vestito da pipistrello; mi piaceva quand'ero bambino, ma adesso che sono cresciuto non ci trovo più niente di speciale.”

Una volta i film tipo “Ispettore Callahan” erano fascisti, perché il vigilante, le paure piccolo-borghesi e via dicendo. Oggi stanno pian piano risalendo la china e tempo due anni saranno il nuovo faro della cultura cinematografica, perché spiegano il declino, le ansie e le disillusioni della società postmoderna. Provate a trovare qualcuno che onestamente ammetta “Callahan è un personaggio ai limiti del reale, con una faccia da schiaffi, però mi diverto a guardare le sue storie per le battute memorabili, che non c'entrano niente con quello che un poliziotto direbbe mai, ma in fondo chissene, è un film”.

Mai che ci sia la mezza misura, l'onesta percezione della mediocrità. Sono solo canzonette, suvvia.


Un gioco da bambini


Il 2010 appena trascorso resterà nei miei ricordi come l'anno della tecnologia per bambini. Per molti sarà stato l'anno delle prostitute in politica, per altri l'anno dello scontro tra Marchionne e la FIOM, o quello degli studenti che protestano contro la Gelmini.

Per me, è l'anno in cui è divenuta preponderante a livello di massa l'idea che l'efficienza e la bontà di una tecnologia si debbano misurare in base alla capacità di un bambino non ancora scolarizzato di utilizzare la tecnologia medesima.

Sto certamente pensando al touch-screen, glorificato perché alla portata dei fantolini, ma non mi limito a questo: in svariati ambiti è idea diffusa che l'ergonomia debba essere tale da non richiedere alcun apprendimento, se non quello possibile ad un bambino.

Ma cosa succederebbe se tutta la tecnologia umana si fondasse su questo principio?

Innanzitutto, sarebbe difficilissima da creare. Dovendo usare le mani per muoversi. Perché cammineremmo tutti a quattro zampe, visto che quello è il modo in cui i bambini naturalmente deambulano. Ma anche se potessimo usare le mani, avremmo molto poco da fare: un bambino non sa usare il fuoco, non sa scrivere, non sa costruire un riparo per la notte o filare la lana per avere dei vestiti.

Sostanzialmente la civilizzazione è incompatibile con le capacità di un bambino. Per questo motivo servono decine di ingegneri incredibilmente abili e preparati per arrivare a creare un gadget che possa essere usato anche da un bambino in età prescolare.

Che poi in pratica vuol dire una minoranza che possiede le conoscenze può stabilire cosa la maggioranza debba usare, quando e in che modo. E finché si tratta del sottoscritto che non può vedere un video di YouTube sul famoso tablet perché l'applicazione dedicata non lo consente, non è neanche un problema. Ma in un mondo in cui l'alfabetizzazione ormai coincide con il saper usare un computer anche nel lavoro peggio pagato, glorificare l'analfabetismo non mi pare la più saggia delle decisioni.


Smetto quando voglio

Nel blog del Dr. Manhattan ho scoperto che Enrico Brizzi ha pubblicato un libro. Mi ci è voluto un po' a capire chi fosse Brizzi, poi Google in 0,678 secondi mi ha detto che è quello di Jack Frusciante. Ooocchei.

Il libro esce e di cosa parla? Del Berluscone. Perché Berluscone è talmente avanti da essere diventato un genere letterario a sé (uno scrittore può campare scrivendo polizieschi, o horror, o poesia erotica, oppure scrivendo di Berlusconi. Un caso unico). I topoi ci sono tutti: il palazzinaro, la televisione, Drive-in e tutto quello che fa da contorno. Ora che sappiamo di cosa parla, cosa ci insegna questo libro?

Una verità molto triste. Che nel nostro Paese coloro dai quali ci si aspetterebbe una maggiore apertura ed un più ampio progresso intellettuale sono in realtà quelli che meno vedono e meno sanno del mondo.

Consideriamo l'idea secondo cui Berluscone ha formato... no, deformato l'immaginario e la cultura italiani per mezzo delle sue tv. Soltanto una persona che abbia guardato esclusivamente Finivest/Mediaset può dire una cosa del genere. La televisione italiana trasmette esattamente gli stessi programmi che si vedono in tutti gli altri Paesi democratici/capitalisti. Usa, Uk, Francia, Germania. Anzi Berluscone ha portato in Italia negli anni 80 quello che in America aveva avuto successo durante il boom del secondo dopoguerra, niente di che. C'era un territorio vergine e lui ci è arrivato per primo vendendo patacche dismesse.

Questo la dice lunga. Tutti che guardano fissi Berluscone e la tv, non voltano mai la testa, e poi si lamentano che Berluscone e la sua tv sono dappertutto e controllano tutto. Ma se solo voltassero la testa di 90 gradi, scoprirebbero un mondo intero a cui di Silvio non interessa nulla.

Perché se passi il tempo a rincorrere Berluscone, Berluscone sarà sempre più avanti di te per definizione. Abbiamo internet? Sì. Come lo usiamo? Scrivendoci sopra i commenti a quello che si è visto la sera prima in tv!

Non se ne perdono un minuto: Santoro, Fazio, Saviano, Minzolini, Vespa, tutti tutti tutti i programmi si guardano, dal primo all'ultimo, poi ne scrivono sul blog, poi taggano su Facebook, poi ripostano su Tumblr, infine discutono su Friendfeed. E alla fine commentano: eh in Italia c'è la videocrazia signora mia, comanda tutto la televisione. Se avessimo la banda larga, allora sì che staremmo meglio.

Sì, ma se si provasse un po' a spegnerla? Se si provasse un po' ad usare internet per vedere di cosa discutono, per esempio, negli altri Paesi? A cosa serve internet se poi si legge Repubblica.it o il Corriere.it?

È vero che all'estero la televisione non è un fenomeno così pervadente, ma non è dovuto al fatto che sia intrinsecamente migliore della nostra. È solo che le persone con un livello culturale medio non la considerano. Sanno che la tv produce principalmente liquami tossici, sanno che è intrattenimento a basso costo per le masse e basta, non la guardano. Non stanno tutti i giorni incollati alla tv per poi lamentarsi della tv; non fanno i sociologi da blog; non vanno in giro come i monatti a raccogliere i cadaveri dei lobotomizzati.

Abitando in Germania non vedo la televisione italiana, ma sono sempre al corrente di quello che trasmettono, perché la blogosfera italiana non parla d'altro. Ne parla magari male, ma ne parla. Su YouTube si trovano i video dei programmi. C'è gente che registra i programmi, poi li converte, li edita e li carica su YouTube. Fatica e sforzi e (presumo) fegati grossi a quale scopo?

Perché io voglio la banda larga per guardare Ballarò, vero? Per guardare Bersani in bassa risoluzione?

Internet offre la libertà di esprimersi e creare a poco prezzo. Ebbene, al netto degli sciroccati, di quelli che prevedono la fine imminente della qualunque, cosa rimane? Quelli che parlano male di Berluscone e quelli che parlano male di quelli che parlano male di Berluscone.

È un'ossessione. Eppure sarebbe così facile: smettere di guardare la tv libera la mente, libera connessioni neurali e libera dal fardello di guardare compulsivamente la tv per poter accusare la tv di controllare i cuori e le menti degli italiani.

Dai libri sibillini alle righe di codice

All'alba dell'era dell'informatica di massa, la nuova frontiera della cultura pop veniva colonizzata da un nuovo personaggio, il nerd. Caratterizzato da un'intelligenza superiore, applicata principalmente a materie tecnico-scientifiche, e dalla passione per divertimenti ad esse legati (videogiochi, fantascienza, ma anche fumetti e letteratura fantasy...), originariamente il nerd era oggetto di scherno da parte della comunità di pari. Un personaggio quasi negativo.

A distanza di anni, l'immaginario collettivo e la cultura pop usano lo stesso personaggio in maniera opposta, quale figura positiva da valorizzare. L'incapacità di gestire i rapporti sociali viene trattata con accondiscenza, l'incapacità di relazionarsi con le donne diventa motivo di comprensione. Nel 2010 è il nerd che tratta la biondona con alterigia.

15 anni fa questa era fantascienza

La ragione del mutamento è evidente. Poiché le redini del mondo sono tenute da Bill Gates, Steve Jobs, Larry Page, Sergey Brin e Mark Zuckerberg (tutti nerd), poiché costoro controllano le nostre vite, sanno quello che facciamo, dove siamo, chi sono i nostri amici, quante ore di Tube8 guardiamo al giorno, progressivamente stanno trasformando l'immagine di sé stessi: ora siamo nella fase intermedia, quella dei teneri imbranati rubacuori; domani saranno la nuova nobiltà e il nuovo clero, l'élite in grado di far funzionare il mondo informatizzato adorata da una popolazione di niubbi che sa soltanto premere il pulsante “Potenza”.

La religione di domani

La cosa interessante però è il cambiamento sociale che si sta verificando. Ormai sempre più persone che sprecano le loro giornate giocando ai videogiochi e leggendo fumetti si definiscono con orgoglio “nerd”. È interessante perché costoro mancano dell'attributo fondamentale del nerd, l'intelligenza superiore e la passione per lo studio e la scienza, e si dedicano esclusivamente ai passatempi tipici del nerd. Cioè, ci sono persone che si atteggiano a nerd pur non essendolo; come quelli che si indebitano per poter ostentare un'auto da ricchi, sempre più individui ricercano l'accettazione sociale scimmiottando i tratti marginali e esteriori della figura del nerd.

In una completa incomprensione del “fenomeno nerd”, scambiano le cause con gli effetti e dunque credono che l'incapacità di relazionarsi agli altri sia segno di intelligenza, anziché semplice incapacità di relazionarsi. Pensano che leggere fumetti sia un'attività intellettualmente superiore, anziché il passatempo di intelletti superiori. C'è gente che fa finta di essere affetta dalla sindrome di Asperger quasi non fosse una malattia ma un simpatico tratto caratteriale. Che è come far finta di avere la sifilide per far credere di essere grandi amatori.

Insomma, tutto questo è sintomatico di un mondo che sta cambiando le proprie élite culturali ed in cui le classi “inferiori” cercano di emulare alla meglio, nei tratti più semplici ed riproducibili, queste élite. Ed è anche, per i giovani più svegli, la direzione da prendere se si vuole stare abbastanza in alto nella piramide sociale. 

Che spasso la biblioteca


Non mi è mai capitato di conoscere qualcuno che affrontasse in maniera razionale il perché bisogna leggere libri. Tutti pensano che sarebbe bene leggere tanti libri, tutti ammirano quelli che leggono tanti libri e oggi c'è persino aNobii, dove si può  mostrare agli amici quanti libri si sono letti.

Nessuno però vi dice perché. Personalmente rivendico la superiorità del libro non sul piano ontologico (leggere un libro non è un'attività superiore ad altre) ma sul piano che ai libri compete, cioè l'intrattenimento.

Sostengo la superiorità del libro come forma di intrattenimento, e lo faccio per un motivo razionale: il libro offre il miglior rapporto costo/benefici rispetto a tutte le altre forme di svago.

I costi sono esigui. Bisogna saper leggere, e questo è ormai non è più un problema per nessuno. Costa pochi euro. Questo è quanto.

I benefici sono innumerevoli. Intanto esistono libri per tutti i gusti: che si abbia voglia di profondi processi intellettuali, di trame mozzafiato o di languide storie d'amore, c'è sempre il libro giusto. Un libro dura giorni, se non settimane. Lo si può portare dove si vuole senza problemi, non ha bisogno di elettricità, di supporti, di cavi, di spazio, di password, di connessioni. Teme l'acqua, ma polvere, cibo, sabbia, sigarette e vento non lo scalfiscono. Può cadere, sbattere, essere strattonato e strapazzato, ma sarà sempre lì. Non deve funzionare, gli è alieno il concetto di funzionare. Si può interrompere la lettura quando si vuole, e riprenderla quando si vuole, e non l'esperienza non ne risentirà.

Inoltre, ciò che lo rende imbattibile è il fatto che tendenzialmente il costo aumenta al diminuire della qualità. Cioè: esiste una letteratura di consumo, di bassa qualità, ad un costo unitario relativamente alto. Esiste la letteratura di qualità che invece si situa nella fascia di prezzo più bassa.

Così se vi piacciono le schifezze di cassetta pagate tanto, mentre più il vostro gusto è raffinato meno pagate. È un piccolo angolo di giustizia in questo brutto brutto mondo.

Non esiste nessun'altra forma di intrattenimento che offra così tanto a così poco. Il cinema e il teatro durano un paio d'ore al massimo, richiedono di essere presenti in un luogo prestabilito, dipendono dalla tecnologia e comunque non sono disponibili continuamente.

La musica è a metà strada. Quella dal vivo ha le stesse caratteristiche del cinema e del teatro e sovente a costi superiori. La musica registrata, benché sempre disponibile ed anche a prezzi accessibili, richiede una buona dotazione tecnologica per essere gustata a pieno, e in questo caso più alta è la qualità richiesta, maggiori sono i costi necessari per usufruirne.

I videogiochi costano moltissimo ma soprattutto non sono universali: azione, sangue, velocità abbondano, ma spessore culturale no. Bisogna essere veri appassionati, altrimenti non vale la pena.

In qualche modo i telefilm stanno cercando di prendere il posto del cinema, e qualcuno ha finalmente capito che un film di 90 minuti non basta a raccontare un storia come si deve. Ma qui siamo ancora agli albori del genere, sempre che ci sia un'ulteriore evoluzione.

Infine la grandezza del libro sta nella quantità di risorse utilizzate. Considerate i riconoscimenti: un autore e qualche correttore di bozze contro le decine, centinaia del cinema. Considerate gli strumenti: 21 lettere, a fronte di sceneggiatura, montaggio, luci, effetti speciali, CGI, occhiali 3D e musica in surround.

Il libro è la forma superiore di intrattenimento.

Il tunnel

Un lettore ci ha mandato la sua testimonianza sulla sua brutta dipendenza. Pubblichiamo solo alcuni brani significativi, ma questo spaccato di sofferenza e dolore di vivere, ma anche si speranza e redenzione, merita di essere condiviso, anche e soprattutto per tutti quelli che stanno soffrendo lo stesso. Per gli ovvi motivi non riveleremo l'identità del lettore.


Giorno 1
Sono partito con grande entusiasmo. So che ce la posso fare. Ho deciso di tenere un diario per aiutarmi a superare la possibile crisi d'astinenza. I miei amici non sanno niente. La mia ragazza nemmeno. Voglio fare una sorpresa al mondo intero.

Giorno 2
Ieri è stata meno dura di quanto pensassi. Credevo che arrivare a sera fosse una pena, come quando si smette di fumare. Invece sono andato via liscio. Dai, che se continuo così sarà un passeggiata di salute.

Giorno 3
Immagino che l'entusiasmo iniziale stia svanendo, perché adesso non mi sembra così facile. Ci penso ogni momento della giornata. La gente mi parla, io non li ascolto, li sento solo in sottofondo mentre la mia mente è sempre lì, sempre lì, sempre lì.

[…]

Giorno 10
Non è facile, non è facile per niente. Il primo giorno è stato l'unico davvero facile. Spero che la sera arrivi presto, così posso dormire e non pensare più a niente. È come se avessero tolto il puntello alle mie giornate, è come aver perso il collante che teneva insieme la mia quotidianità. Adesso ogni giorno è solo una sequenza di fatti slegati senza senso.

[...]

Giorno 30
Il primo mese da quando ho smesso. Molto lentamente comincio a non pensarci più, ma è quasi impossibile farne a meno. Soprattutto con gli amici, ma anche in ufficio, è una presenza costante, tutto e tutti mi ricordano cosa voglia dire farne a meno. Sono consapevole di avere un problema, e ancor di più da quando vedo gli altri. Io ero come loro fino a quattro settimane fa e non voglio più.

Giorno 31
Che coincidenza: ieri sera prima di dormire Alessandra mi ha detto che le sembravo cambiato e che le ultime due settimane sono state deliziose. Le ho chiesto perché. Mi ha risposto che mi vede più sereno e disponibile, molto più presente e attento. Ha voluto sapere che cosa fosse successo, ho detto “non lo so, niente”. Dentro di me ero felicissimo, è stato uno stimolo fortissimo a continuare e a non mollare.

[…]

Giorno 78
Oggi stavo quasi per cedere. In ufficio tutti parlavano della nuova proposta di legge del governo e io non sapevo cosa fare. Più di due mesi senza leggere il giornale e mi sentivo ad anni luce di distanza da loro. Erano arrabbiati, infuriati, alzavano la voce e mi chiedevano di partecipare alla discussione, di prendere una posizione, di spiegare a chi non era d'accordo con loro per quale motivo stesse sbagliando. Non potevo dir nulla, non sapevo di cosa stessero parlando. Al loro confronto parevo un'ameba.

Giorno 79
Non la smettono di discutere di questa proposta di legge. Mi faccio violenza e non uso internet per leggere i giornali. Eppure sono lì, facilissimi da raggiungere, tutta quell'informazione a mia disposizione. Ma devo resistere, ce la posso fare. Devo inventarmi qualcosa. Non devo leggere i giornali.

Giorno 80
Ho adottato una nuova strategia. Quando iniziano a discutere della legge, faccio finta di avere qualcosa da fare e me ne vado. Per distrarmi, vado a parlare con la segretaria e con la receptionist. Del tempo, dei loro telefilm preferiti. La segretaria ha anche una bambina: le ho promesso che io e Alessandra possiamo farle da baby-sitter, se qualche sera ha voglia di uscire. La ragazza alla reception invece studia e lavora per pagarsi le tasse universitarie.

[…]

Giorno 234
Non vorrei esagerare con l'ottimismo, ma le cose stanno andando proprio bene. Per esempio, nell'ultima settimana non c'è stato un solo momento in cui abbia pensato alle notizie, a tenermi informato o a leggere un giornale. Soltanto qualche mese non facevo altro. Alla fine ho dovuto dire ad Alessandra che mi stavo disintossicando dai giornali ed era per questo che mi vedeva molto più sereno e presente. All'inizio non sapeva come reagire, ma visto l'effetto mi ha supportato in tutto e per tutto.

Giorno 235
Incredibile! La ragazza della reception, che ha tipo 10 anni meno di me, che potrebbe avere tutti gli uomini che vuole, quella che tutti pensano che se la tiri perché si crede tanto bella, ci sta provando praticamente senza sosta. All'inizio pensavo che certe battuttine fossero così, senza senso, ma ormai è chiaro che ci sta. Non che voglia fare niente, io ho Alessandra, ma cavolo se mi fa piacere. E solo perché in pausa caffè mi fermo da lei a fare due chiacchere invece che litigare con i colleghi sulla finanziaria.

[…]

Giorno 311
Ah, se penso a com'ero dieci mesi fa... 311 giorni senza toccare un giornale o guardare un TG. Ormai non aggiorno quasi più questo diario, tanto non ho più niente da scrivere. Non sento più la mancanza delle notizie, non ho più paura di andare online e cedere al desiderio di informarmi. Con Alessandra va come meglio non potrebbe andare.

[…]

Giorno 365
Un anno! Un anno senza leggere i giornali. Ne sono fuori, mi sento un uomo nuovo, l'aria che mi entra nei polmoni è fresca come non lo è stata mai, il cibo ha un sapore come nessun altro prima.

Prima di smettere, le mie giornate iniziavano con un'arrabbiatura di quelle da manuale. Già alla prima pagina iniziavo a inveire dentro di me; poi mi arrabbiavo con i colleghi, che non capivano niente, che leggevano il giornale “sbagliato”, che si facevano abbindolare da notizie “preconfezionate”. Poi la sera su Facebook, o al pub con gli amici, ancora incazzature perché e la legge, e il governo, e la guerra e tutto quanto. E hai letto l'articolo questo, e l'hai letto l'editoriale quest'altro.

Oggi invece basta. Mi sveglio, faccio colazione e non sono arrabbiato. Vado al lavoro e non sono arrabbiato. Non litigo con i colleghi. Non vado avanti per delle ore a discutere con i miei amici. Non inoltro e condivido come un forsennato articolo dopo articolo tutto quello che trovo in rete.

Pensavo che sarei diventato ignorante e stupido. Temevo di tramutarmi in un pessimo cittadino. Invece ho scoperto che non leggere i giornali non crea nessun disturbo alla propria intelligenza e cultura. Mi sono reso conto che per anni ho creduto di ricevere sapere e conoscenza, ed invece erano solo paccottiglia venduta un euro a copia, buona per avere un motivo per insultarsi al bar, ma niente di più. Ero come un cagnolino addestrato ad abbaiare a comando, bastava suonare la camapanella della notizia del secolo che mi mettevo in piedi sulle zampine posteriori e mostravo i dentini affilati.

Del mondo non ne so meno oggi di quanto ne sapessi un anno fa, solo che sono più sereno, mi dedico alla mia donna, sono più gentile con i colleghi e non litigo più con gli amici. Sono rinato e non sono mai stato così soddisfatto in vita mia.