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La passione per la corruzione

Da appassionato di storia trovo che i periodi più affascinanti da studiare siano quelli tradizionalmente trascurati dai programmi scolastici e quindi al grande pubblico. Questi periodi sono quelli che nei manuali delle superiori vengono liquidati in poche battute, considerati momenti di passaggio tra un'epoca e la seguente oppure fasi terminali di processi più importanti: la storia della Grecia post-classica; le fasi finali dell'impero romano, comprese le cosiddette invasioni barbariche; la fine del paganesimo e l'avvento del cristianesimo. Esse sono conosciute in maniera superficiale e giudicate - generalmente - come la corruzione della situazione precedente che ha determinato la fine di un'epoca.

Per esempio è innegabile che esista una vulgata ben radicata, anche tra i banchi di scuola, che ritiene il tardo impero romano un luogo di corruzione e dissolutezza, il quale, corroso dall'interno, non ha potuto che crollare sotto i colpi delle popolazioni barbariche. Sul piano storico, questo giudizio è completamente privo di fondamento e tra gli specialisti è stato ormai abbandonato da tempo. Perché dunque rimane?

Innanzitutto perché la conoscenza storica destinata alla massa di studenti proviene dai programmi scolastici e nei programmi scolastici, tradizionalmente, la storia ha avuto un ruolo ideologico che è servito a creare una visione del mondo funzionale al presente. Così la Grecia classica è servita ai rivoluzionari francesi per far attecchire la propria ideologia democratica e libertaria, ma è anche servita alla Germania del secondo impero per creare la propria ideologia antidemocratica e autoritaria.  L'antica Roma è servita a dare un sistema di riferimento a tanti repubblicani risorgimentali italiani, ma anche a fornire al fascismo gli strumenti propagandistici atti a creare consenso.

Se lo scopo era creare, per mezzo della storia, una visione del mondo particolare che desse un quadro di riferimento ideologico alle masse di cittadini che dovevano riconoscersi in un passato comune, come è accaduto in Europa per tutto l'Ottocento e fino alla fine della seconda guerra mondiale, il messaggio della storia doveva essere semplificato il più possibile, in modo che fosse assimilabile da quanti più contadini, operai, fabbri, minatori, mondine, Fabi Voli panettieri possibile.

Insomma, come la Chiesa ha creato quella sofisticata architettura del pensiero chiamata teologia, ma alla massa del popolo ne riserva una versione semplificata all'estremo chiamata catechismo, così gli stati-nazione rielaborano la complessità della storia in un racconto che ha un'inizio, uno svolgimento e una fine ed è fatto di personaggi archetipici e topoi letterari predeterminati. Come la Chiesa ha un'elite di studiosi che non si cura di un vecchio uomo barbuto che dal cielo controllerebbe cosa fa la gente a letto, così gli stati hanno un'elite di accademici che non vede la storia in termini di periodi di apice seguiti da corruzione e morte. 

In questo processo di annacquamento della storia è stato inevitabile che alcune epoche siano state lasciate da parte e facilmente etichettate come periodi di corruzione e quindi inutili da approfondire: se teniamo a mente la storia di Roma, così parliamo di un argomento che più o meno conoscono tutti, è facile vedere che le fasi di cosiddetta corruzione sono in realtà periodi molto complessi sul piano politico, culturale e sociale e - in quanto tali - non possono essere facilmente spiegati in una scuola media o in un liceo classico, dove il fine era creare cittadini fedeli alla Patria e pronti a morire per essa.

Il programma scolastico medio, fino a qualche anno fa almeno, trattava la storia di Roma (come pure quella della Grecia), secondo il modello inizio-apice/periodo classico-corruzione-dissoluzione. Le fasi di inizio e di apice erano il veicolo dei valori positivi che si volevano trasmettere, mentre le fasi di corruzione e dissoluzione rappresentavano i valori negativi che distrussero quelle civiltà e che, non c'è bisogno di dirlo, minacciavano anche il presente.

Si ha gioco facile nel creare questo genere di contrapposizioni perché, di solito, i periodi di origine e apice di una società antica sono anche i periodi per cui le fonti sono più scarse, mentre per i periodi successivi le fonti sono molto più abbondanti. Così per la Grecia classica o per la Roma repubblicana le nostre conoscenze dipendono da poche tradizioni, schierate da una parte sola, che a loro volta erano nate per esaltare o silenziare i vari punti della storia. La storia delle origini di Roma e poi della repubblica è bellissima, ma non possiamo far finta di non vedere che quello che sappiamo è un racconto di una persona sola, che ha attinto a fonti ufficiali, con lo scopo di giustificare il principato e creare un'ideologia comune nell'elite dominante che ponesse fine lotte intestine che duravano da decenni. 

Grazie alla scarsità di fonti è inoltre molto più facile riempire i buchi con quello che sembra più adatto al fine educativo. Ma se di un periodo storico si conoscono molti più dettagli, diventa difficile ignorare che la società antica era anch'essa umana, troppo umana e per questo molto più simile al presente e molto meno esemplare. Per secoli la storia di Roma si è studiata leggendo Cicerone e Livio, ammirando la grandezza degli antichi, la loro moralità, il loro senso dello stato. Ma poi si è scoperta Pompei e si è visto che il romano medio non passava le giornate alle terme di bianco vestito discettando di iustum e utile e dibattendo sull'ambasceria di Carneade, ma preferiva frequentare i bordelli e discuteva di elezioni alla maniera di un beppegrillo qualunque.

Ma queste cose agli studenti non si possono dire. E allora gli si propina Attilio Regolo e l'abuso della pazienza di Catilina e si liquida il resto dicendo che ormai era un mondo corrotto, un paio di capitoli di Petronio per far vedere quanto corrotto fosse, invasioni barbariche e via col Medioevo.

Ma nel momento in cui non si concepisce la storia come una serie di modelli educativi per i giovani e invece si comincia a studiarla per il piacere di studiarla, allo stesso modo in cui si studia la natura per capire come funziona e non per trovare dimostrazioni a quanto Aristotele aveva scritto duemila anni fa, tutti quei periodi che sono stati bollati come corrotti diventano estremamente più interessanti.

La tarda antichità è un argomento che sto gradatamente cercando di approfondire e apprezzare. Il suo fascino è dovuto alla complessità della società sotto ogni punto di vista e alla disponibilità di fonti variegate che permettono di analizzare quel periodo sotto diversi punti di vista incrociati. Le invasioni barbariche non sono per niente "invasioni" pure e semplici, così come l'avvento del Cristianesimo non è un avvento. Sono entrambi processi che si svolgono nel tempo, coinvolgendo in momenti diversi strati della società diversi con esiti diversi.

Più che l'aspetto evenemenziale, che ritengo un sostrato necessario ma non sufficiente alla ricerca, ad interessare è lo scontro, l'incontro, la mescolanza di Weltanschaung che si presentano ancora come elementi distinti ma grazie ai quali si possono già cogliere gli sviluppi della società europea posteriore (graziati come siamo dal senno di poi). In un certo senso è come leggere un romanzo giallo in cui si sa già chi è il colpevole e ci si può dunque godere senza disturbo la storia di come l'assassino e il detective sono arrivati a quel momento, cercando di capire come ragionano, quali motivazioni li spingano, quali obiettivi cerchino di raggiungere.

Questa complessità tuttavia è praticamente irriducibile ad unità ed è di fatto impossibile parlare di quelle epoche credendo di averle comprese fino in fondo. La coperta della nostra interpretazione è sempre troppo corta e se cerchiamo di coprire per bene un'estremità, ne lasciamo scoperta quella opposta e siamo quindi costretti a muovere continuamente la coperta, o a trovare un compromesso che lasci fuori il meno possibile, consapevoli che qualcosa rimane sempre fuori.

Tutto l'opposto insomma della storia classica che ci insegnavano a scuola, dove gli antichi erano mostri di moralità e buon governo, che si muovevano in un tempo scandito dal progresso verso la perfezione e dal conseguente regresso verso la barbarie. Una storia fatta di uomini, di ingegneri che costruivano opere grandiose e di cafoni arricchiti che organizzavano banchetti di volgarità, di estremisti religiosi che credevano nella venuta della fine del mondo e reazionari che tentavano di mantenere in vita il corpo di una gloriosa tradizione culturale, di intellettuali che cercavano di conciliare la filosofia greco-romana con i principi di quella nuova eresia giudaica ormai egemone, di clerici trovatisi a rappresentare la gloria di Roma di fronte alla nuova classe dirigente che veniva da est, di insegnanti che si battono invano per far imparare una lingua che sta per diventare morta.

Lunga e noiosa dissertazione sull'origine delle differenze tra Italia e Germania

Una costante del mio parlare della Germania agli italiani è cercare di spiegare perché io non ritenga che noi siamo un popolo di incivili, mentre contemporaneamente ammetta che in Germania le cose funzionano oggettivamente meglio (tanto che vivo qui per scelta e non per bieca necessità). Allora ho pensato di mettere giù due righe e spiegare questo fatto. 

Premessa importante: questo è un blog, quindi va preso per quello che è. Scrivo quando posso, di sera, nei ritagli di tempo se il lavoro per quel giorno non mi ha mandato in pappa il cervello. Quello che scrivo riflette i miei interessi, quindi le spiegazioni che mi do di solito si fondano su una selezione di tutti i dati disponibili. Ergo quello che si leggerà qui è parziale, monco, non può e non deve essere considerato una spiegazione esaustiva della materia che vado a trattare.

Bene, ciò detto, perché io vado in giro a ripetere che i tedeschi non sono più civili di noi mentre le cose in Tedeschia funzionano meglio? Ordunque la risposta che meglio mi aggrada è di ordine storico. 

Seconda premessa importante: ho scelto di fare un discorso ad ampio respiro che, in quanto tale, non tiene conto di tutti i particolari. Quello che qui sembrerà un movimento armonico e univoco, nella realtà fu un processo complesso e anche molto sofferto, incoerente e inorganico, pieno di spinte e controspinte, che vanno inevitabilmente a perdersi mano a mano che il punto di vista dell'osservatore si allontana da esse. 

* * *

La Germania unita è una nazione relativamente giovane, circa quanto l'Italia. Come l'Italia, è stata prima di tutto un'idea politica fondata sull'unità linguistica e culturale che ha preceduto la sua realizzazione pratica. Come l'Italia, è il frutto dell'espansione territoriale di uno dei tanti stati che componevano i territori germanofoni; in Italia è stato il Piemonte, in Germania la Prussia. Addirittura con l'Italia la Germania condivide una parte decisiva dei rispettivi processi di unificazione: il 1866, quando Regno d'Italia e Prussia sconfiggono l'Austria-Ungheria (cioè, l'Italia venne sconfitta a Custoza, ma la Prussia vinse a Sadowa, quindi noi abbiamo vinto per la proprietà transitiva delle battaglie. Passata alla storia come Terza Guerra d'Indipendenza).   

Io credo che le differenze tra Italia e Germania nascano a questo punto, a unità raggiunta. Terza premessa al mio discorso: sono convinto che in qualsiasi comunità/società/gruppo umano la direzione che il gruppo prende sia determinata dalle elite che governano quel gruppo: che sia un club di modellismo, un'azienda quotata in borsa, uno Stato, la minoranza che sta al potere determina gli esiti di quel gruppo, mentre la maggioranza vi si adegua. 

Quando la Germania nel 1871 compie il processo di unificazione e fonda l'Impero Tedesco (Deutsches Kaiserreich), le elite di governo hanno carta bianca, perché non esiste un manuale di management dell'unificazione che spieghi passo passo cosa fare quando si deve governare una nazione appena creata. La situazione allora era questa: uno Stato nuovo nato dalla fusione di differenti monarchie, ognuna con la propria organizzazione e burocrazia; abbondanza di risorse naturali (carbone, acciaio, eccetera); un sacco di nazioni intorno che non sono contentissime della nascita di questo impero. 

In questo contesto la Germania si muove in tre direzioni: creazione di un esercito efficiente sul modello prussiano; creazione di una burocrazia statale efficiente; creazione di scuole e università e promozione della cultura in tutti gli strati della popolazione. Ora, l'esercito in questa sede non interessa, perché l'attenzione sarà rivolta agli altri due aspetti.

Il Reich inizia subito ad investire massicciamente nella cultura. Il tasso di analfabetismo inizia a scendere costantemente, fino a raggiungere i livelli più bassi dell'Europa del tempo. Allo scoppio della Grande Guerra gli analfabeti tra i soldati tedeschi sono un numero drammaticamente inferiore rispetto a quello dei soldati italiani. Non solo, nella Germania postunitaria il numero di università che vengono fondate è incredibilmente alto. Il tradizionale concetto di università valido fino ad allora viene modificato e sorge l'università moderna così come noi la conosciamo e così come noi riteniamo debba essere.

Contemporaneamente il nuovo Stato unitario comprende la necessità di costruire un apparato burocratico che funzioni e si rende conto che la macchina statale non è fatta di regole, ma di persone e che è necessario che ogni singola persona che fa parte di quel meccanismo non lo intralci e non metta il proprio interesse o il proprio comodo di fronte al bene della burocrazia. È dunque necessario formare i membri dell'apparato statale in funzione del nuovo ruolo che andranno a ricoprire e per fare ciò è necessario creare una nuova fedeltà allo Stato che soppianti i legami di sangue o di relazioni preesistenti.

Questo duplice approccio - educare la popolazione e creare una classe di funzionari pubblici fedeli allo Stato - si rivela la scelta giusta e i frutti si vedono subito. È nell'impero tedesco che comincia la seconda rivoluzione industriale, è qui che si gettano le basi per la creazione del mondo contemporaneo, sia sotto il punto di vista culturale che sotto quello tecnologico. A partire da questo momento la Germania diventa un faro per la cultura occidentale. Per avere un quadro completo dello straordinario impulso tedesco alla scienza e alla tecnologia dal 1871 a oggi, troppo spesso ignorato o sottovalutato per colpa di quei maledetti 10 anni di dittatura, consiglio di leggere un libro uscito due anni fa: P. Watson, The German Genius: Europe's Third Renaissance, the Second Scientific Revolution, and the Twentieth Century, New York 2010.

Come si vede, le scelte della Germania o - per meglio dire - della sua classe dirigente, sono state opposte a quelle della classe dirigente italiana postunitaria. Lì si è percorsa la strada dell'alfabetizzazione di massa, qui si sono tenuti gli italiani a livelli di analfabetismo altissimi fino agli anni 60 del Novecento. Lì si sono formati e allevati funzionari pubblici fedeli allo Stato e alle sue leggi, qui si è lasciato che l'amministrazione pubblica rimanesse impigliata nella rete di relazioni e interessi privati che esistevano da prima. È una questione di mentalità. In Italia si pensa che la cultura sia strumento di emancipazione del singolo o della classe rispetto alla società e al potere costituito. Si è sempre ritenuto che educare la popolazione fosse la ricetta giusta per la rivoluzione (e quanti di noi non pensano che "loro" preferiscono avere una popolazione ignorante e malleabile e che non ci vogliano far studiare perché altrimenti saremmo una minaccia?) In Germania invece si è capito che l'istruzione è la strada maestra verso l'integrazione nella società e la fedeltà allo Stato, sia dei funzionari pubblici (soprattutto loro) sia della popolazione. E infatti - per fare alcuni esempi - il Regno d'Italia era una fucina di terroristi e anarchici, mentre nel Reich si sviluppò prestissimo la socialdemocrazia e le idee marxiste e rivoluzionarie vennero abbandonate relativamente in fretta. Quando il fascismo pretese dai professori universitari il giuramento di fedeltà, si rifiutarono nemmeno in venti. Quando il nazismo prese il potere, i professori tedeschi diedero una mano a portare in piazza i libri da bruciare.

A questo punto si potrebbe avere l'idea che la Germania fosse un Paese democratico o quanto meno aperto alle istanze popolari. Ebbene, fu l'esatto contrario! Mentre l'Italia cercò di mettersi nel solco della democrazia parlamentare inglese e francese, la Germania volutamente e coscientemente rifiutò quella tradizione e scelse per sé una strada tutta sua, un modo originale e diverso di organizzare la società e la politica, che venne da subito definito Sonderweg (strada/via speciale/diversa da quella delle potenze democratiche e dello zarismo russo).

Quando nel 1849 a Francoforte il primo parlamento tedesco offre al re Federico Guglielmo IV di Prussia la corona della Germania, egli la rifiuta: il trono dell'impero tedesco non deve essere legittimato dal popolo, poiché quello che il popolo dà, il popolo può togliere. Il senso di superiorità dell'aristocrazia rispetto al popolo e ai borghesi rimarrà costante per tutta la durata del Reich. Ad una nobiltà di sangue corrisponde una nobiltà di cultura e sapienza che è esclusiva delle elite di potere tedesche.

Esistono due parole per definire il termine 'cultura': Kultur e Zivilisation. La differenza tra le due è gerarchica: Kultur sta in alto, è il sapere intellettuale; è "nobile", per così dire. La Zivilisation sta un gradino più in basso e pertiene agli aspetti più pratici e "materiali" dell'esistenza. È utile, ma meno pregiata. Per l'elite tedesca dell'epoca, le altre nazioni non andavano oltre la Zivilisation, perché solo la Germania poteva esprimere Kultur.

Specularmente il sistema educativo tedesco teneva conto di questa gerarchia dei saperi. La divisione tra cultura alta e cultura bassa era netta. In alto stava la speculazione intellettuale che si fondava sulla tradizione dell'antichità greco-romana, in basso stavano le discipline tecnico-scientifiche. Ciò che rende affascinante l'esperienza tedesca è che questo bipolarismo, questa sfacciata gerarchia dei saperi (così contraria al sentire contemporaneo) ebbe come risultato che sia la cultura "alta" che la cultura "bassa" crebbero come in nessun altro luogo in quel periodo.

Tanto fiorirono gli studi classici (il secondo Rinascimento di cui scrive Watson si riferisce precisamente alla riscoperta dell'antichità, simile a ciò che era accaduto in Italia con il Rinascimento) quanto la scienza e la tecnica. Ma come è stato possibile?

In un certo senso, gli intellettuali tedeschi decisero di rinchiudersi nella torre d'avorio. Apposta. Per non mischiarsi con la volgarità mondana. Tuttavia vollero per loro la miglior torre d'avorio possibile e quindi vollero circondarsi dei migliori ingegneri, tecnici, muratori, idraulici. Gli intellettuali fornirono le scuole e le università, i tecnici conoscenza pratica. Gli intellettuali non intendevano fare proselitismo culturale e si disinteressarono alle questioni spirituali di chi stava fuori dalla torre e i tecnici accettarono di non intromettersi nelle decisioni prese dentro la torre (anche se gli intellettuali non potevano sapere che di lì a poco i tecnici, dopo aver costruito loro la torre d'avorio, li avrebbero chiusi dentro sbarrando la porta dall'esterno).

Perché oggi parliamo di quello che è successo in Germania non il secolo scorso, ma quello prima ancora? Perché oggi in Germania ancora si sentono gli effetti di quelle scelte così lontane nel tempo. L'apparato burocratico funziona, perché chi vi entra è stato istruito e selezionato con attenzione. Per fare un esempio, chi vuole fare l'insegnante deve - dopo la laurea specialistica - sottoporsi a due anni di tirocinio che, nelle parole di un mio amico, assomiglia all'addestramento dei soldati prussiani: prima ti smontano, ti depurano di tutto quello che credi di sapere, poi ti rimontano secondo gli standard richiesti. Alla fine dei due anni, il posto di lavoro non è assicurato, bisogna trovarse una scuola che ti accetti. E quando arriva il contratto, il futuro insegnante deve, tra le altre cose, sottoporsi a visita medica che accerti l'assenza di malattie invalidanti che mettano a rischio di pensionamento anticipato, che lo Stato tedesco non ha nessuna intenzione di darti lo stipendio per 10 anni e poi pagarti la pensione e i sussidi di malattia per i restanti 50.

Questo sistema non crea genii, crea "semplici" lavoratori preparati. Tiene lontani quelli che vorrebbero fare l'insegnante solo per avere un posto statale blindato a vita o che siederebbero in cattedra per mancanza di alternative o capacità in altri settori. Due anni di tirocinio non si fanno se non seriamente motivati, e già questo produce una scuola migliore rispetto a quella italiana.

Per entrare in polizia bisogna aver studiato. A scuola proprio. Bisogna essere preparati e seri. Non si va in polizia per scappare dalla disoccupazione, perché per questo ruolo lo Stato non vuole avere gente che non è riuscita a trovare nemmeno un lavoro come cassiere al McDonald's. Non è il mio pensiero, è il modo in cui ragiona la burocrazia tedesca. Lo stesso vale per tutti i dipendenti pubblici: l'impiego statale non è un ammortizzatore sociale.

Allo stesso modo per trovare lavoro nel settore privato è necessario aver studiato. Magari poco, ma bisogna aver studiato. Per andare a guidare il muletto in un magazzino servono mesi di tirocinio, così come per qualsiasi altro lavoro che noi considereremmo poco qualificato.

Il sistema educativo, invece, è estremamente diversificato. Mentre in Italia siamo ancora fermi alla polarizzazione liceo-università-laurea da una parte e istituto-tecnico-dove-sbattere-quelli-che-non-si-vogliono-laureare dall'altra, in Germania esistono molte più passaggi intermedi tra gli estremi di chi va a lavorare a 15 anni con il minimo di scolarizzazione e chi si dedica alla ricerca speculativa pura. Perché, visto che non siamo più nell'800, la maggior parte dei lavori richiedono conoscenze specifiche, pratiche ma intellettuali, che si devono insegnare dopo il liceo ma che non richiedono 5 o 6 anni di studi teorici.

Quando mi chiedono se in Italia non possiamo essere come in Germania, rispondo di no. Ma non perché i cittadini tedeschi siano antropologicamente diversi da noi, perché non è così. È che il sistema complessivo è radicalmente diverso. E se lo applicassimo da noi così come è succederebbe in finimondo, ma non per modo di dire.

La quasi totalità dei dipendenti pubblici italiani semplicemente non avrebbe le qualifiche per lavorare, ad esclusione di qualche categoria particolare come medici e infermieri. Se tra i lettori di questo blog ci sono dei dipendeni pubblici, sappiate che - con le qualifiche che avete - non potreste lavorare.

Potremmo cambiare col tempo? No, non credo. Perché. a differenza della Germania di Bismark, oggi l'azione politica e di governo ha bisogno del consenso popolare e il consenso popolare impedirebbe di cambiare la struttura portante del nostro Paese. Vi immaginate un partito che fa campagna elettorale con la promessa di modificare il pubblico impiego in modo che l'accesso filtri ed elimini gli elementi peggiori? Vi immaginate un partito che fa campagna elettorale promettendo di rendere incredibilmente più difficile trovare un lavoro da statale? Io no.

Si poteva fare ad Italia appena unita, quando in ogni caso il governo non si faceva problemi a  cannoneggiare la folla, mandare l'esercito contro i briganti e deportare quelli a cui non stava bene il nuovo corso degli eventi. Purtroppo all'epoca non avevamo la classe dirigente della Prussia e l'occasione è andata persa. Oggi la classe dirigente viene selezionata in base alla capacità di raccogliere consenso e niente di quello che ha reso la Germania quello che è si può fare con il consenso, tutt'altro.

Resistere alla retorica


Nei commenti al post precedente sulla Resistenza, un lettore mi ha fatto notare come non sia giusto prendere in giro la Resistenza, come non sia giusto parlare di cose che non si conoscono e di come sia giusto mantenere viva la memoria di periodi storici che non si sono mai chiusi (stiamo vivendo ancora sotto il fascimo, travestitio da PdL).
Sulla questione di non conoscere, non è mio compito giudicare me stesso, ma di certo, non essendo uno storico professionista specializzato nello studio della Resistenza, mi considero meno che un esperto. Tuttavia, se vengo giudicato in questo modo, mi sento in diritto di applicare lo stesso metro a chi m'ha cucito addosso l'impietoso giudizio.
Partiamo dalla fine: oggi siamo in pieno fascismo. Dire una cosa del genere dimostra la propria non conoscenza né del periodo storico in questione né di quello presente. Innanzitutto perché parlare di un generico fascimo non ha senso. È esistito il fascismo delle origini, c'è stato il fascismo al potere dei primi anni, c'è stato il fascimo alleato dei tedeschi e il fascismo in guerra. E faccio solo un riassunto per sommi capi.
Se volessimo paragonare l'attuale maggioranza parlamentare ad una fase del fascismo, difficilmente potremmo accostarla all'ultimo fascismo, quello che la Resistenza ha contribuito a far cadere. Si era in guerra, c'erano le colonie, stavamo perdendo, al fronte i soldati contadini morivano come mosche, senza senso. Dopo il '43, cioè quando la Resistenza si fece effettiva, il fascismo praticamente non esisteva più: l'Italia era spaccata in due e occupata da due eserciti stranieri. Oggi la situazione non è quella e non credo ci sia bisogno di discuterne.
Così come la situazione odierna non è paragonabile a quella dell'avvento del fascismo. Allora l'Italia (come molte parti dell'Europa) era in fermento. La Grande Guerra fu, oltre che un bagno di sangue spaventoso, uno sconvolgimento sociale, politico ed economico che non ha più avuto paragoni negli anni a venire. Si respirava odore di rivoluzione, i contadini e gli operai erano reduci di guerra, sapevano sparare e volevano sparare. La polizia sparava e i fascisti sparavano. Si voleva “fare come in Russia” e la sinistra non era un comitato d'affari come oggi, era fatta di socialisti che cominciavano ad avere numeri importanti in Parlamento e anarchici che si preparavano attivamente per sovvertire l'ordine costituito. Era un tempo in cui un poeta poteva radunare intorno a sé abbastanza gente in armi da conquistare e occupare una città. Probabilmente è stata l'unica volta in cui in Italia i ricchi hanno avuto paura della plebe. Questo è il clima in cui si è affermato il fascismo. Se qualcuno ha voglia di paragonare le due situazioni, è libero di farlo. Ma non mi pare il caso.
Resta il fascismo di governo, ma ancora trovo difficile paragonare le due situazioni: era un'Italia così diversa sotto ogni punto di vista da rendere difficile un paragone serio.
Quindi, stabilito che il livello di “non conoscenza” storica di entrambe le parti sia equiparabile, proviamo ad andare avanti.
La Resistenza è morta il 26 aprile 1945. La tomba è stata profanata il 2 giugno del 1946 e da allora non c'è stato giorno in cui non ci abbiano pisciato sopra. È morta soprattutto per mano dei due grandi partiti di allora, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana. I partigiani non erano certo andati sui monti per scegliere se diventare i burattini della Russia o degli Usa. Volevano un'Italia diversa da quella che avevano visto, ma non è andata così. Siamo diventati un protettorato americano e ci è andata bene: potevamo fare la fine dell'Ungheria (o anche della Grecia, se dobbiamo dirla tutta). Ci siamo barcamenati con destrezza e ne siamo usciti relativamente bene.
Ma dobbiamo ricordare che il partito che ha sempre preteso di rappresentare la Resistenza, il PCI, era tanto lontano dalle idee politiche dei partigiani quanto lo era la DC. I partigiani non avevano certo combattuto per far andare al potere un partito dedito al soffocamento delle libertà, al conformismo, bigotto e bolso come i democristiani amici suoi.
E qui arriviamo al punto. Perché la Resistenza è stata trasformata in retorica dal nuovo Stato repubblicano. E nel momento in cui l'ha trasformata in retorica, l'ha uccisa. E il PCI si è appropriato di quella retorica, volendo far credere di essere stato l'unico interprete della Resistenza. E c'è riuscito, infatti oggi i mufloni ignoranti che scrivono sui giornali, o siedono su qualche poltrona, o tutt'e due, criticano la Resistenza per criticare la sinistra e insultano la sinistra per insultare la Resistenza. Ma non è colpa di quei poveri disadattati che con un diploma in enologia e una carriera da PR in discoteca si son trovati ministri; è colpa di chi per 50 anni ha fatto finta di essere dalla parte dei partigiani e ha voluto spacciarsi per erede e continuatore della loro opera.
Ed è amaramente ironico, perché a leggere i racconti di chi il partigiano l'ha fatto, è chiarissima la volontà di abbattere ogni retorica, di ripartire senza autocelebrazioni e autoesaltazioni. Ma invece sono stati inascoltati anche in questo, purtroppo.
Per quanto riguarda i ventenni che diventano partigiani oggi, il problema non è certo che aiutino qualche reduce a salire sul palco o che organizzino il coro delle mondine. Anche io conosco i canti degli alpini e se mi capita canto Sul ponte di Perati, ma non faccio finta di essere un reduce della campagna di Grecia. E soprattutto, non vivo nella paranoia di essere sul Don con i russi che mi vogliono far secco. Ma questo non sarebbe ancora il problema, il problema è che quelli che pensano di essere in pieno fascismo sono talmente accecati dalla loro retorica da arrivare a sostenere la parte politica che più di tutte ha agito contro i principi della Resistenza: la sinistra.
Che, una volta scrollatasi maldestramente di dosso i drappi rossi falcemartellati, ha dato il via ad una serie di attacchi militari e occupazioni di Stati sovrani che sono l'unica cosa che possa in qualche modo ricordare il fascismo (cioè, non lo ricorda, ma se proprio dobbiamo fare delle analogie...).
Poi si potrebbe parlare a lungo di questo curioso fenomeno: del perché si dedica passione e fatica a combattere una cosa che non esiste. Perché se qualcuno paragona il PdL al PNF, mi dispiace, ma non ha idea di cosa fosse il fascismo, né alle origini né al governo. Confonde la storia con la memoria, e mescola i ricordi personali con una effettiva conoscenza di quel periodo.
Io nutro il massimo rispetto per chi, di fronte al disastro e alla guerra, ha deciso di prendere le armi per cercare di costruire un mondo migliore. Mi rammarico che non sia stato sufficiente, perché poi i fascisti sono rimasti dov'erano e tutti coloro che dal fascismo avevano tratto vantaggio non sono stati tolti in massa dall'apparato pubblico come doveva essere fatto. Mi fa male pensare che i partigiani siano morti per aprire la strada al PCI e alla DC, che si sono trasformate nell'orripilante caleidoscopio di ignoranza, stupidità e volgarità che chiamiamo “politica”.
Ma non prendo sul serio chi va ad ascoltare le parole di un vecchio novantenne che fa fatica a camminare: le sue scelte di 70 anni fa non lo rendono infallibile, nemmeno quando parla ex cathedra, e se pensa di essere governato dal fascismo, mi dispiace ma sbaglia. Non prendo sul serio chi si iscrive all'ANPI, perché manca di rispetto a chi ha sofferto sul serio sui monti. Non prendo sul serio chi chiama “fascista” qualunque cosa si muova. Non prendo sul serio chi, pur non sapendo, accusa me di non sapere.
Non prendo sul serio tutti gli antifascisti con le bandierine che cantano Bella ciao, perché non siete diversi da me: siete dei poveri sfigati come me, che non contano un cazzo come me, che sono nati in mezzo agli agi e con la pancia piena come me, e che possono permettersi il lusso di fare gli antifascisti senza fascismo perché tanto non c'è nessun fascismo nei dintorni. Se ci fossero le squadracce come negli anni '20, se ci fossero le SS come nel '43-'44, sareste tutti nascosti e probabilmente fareste come i socialisti negli anni '20: stareste buoni ed allineati alla linea del partito, che a parole incitava alla rivoluzione e nei fatti fermava ogni più piccolo sussulto di protesta. “Pompieri” li chiamavano. E lascereste quei pochi che avevano deciso di fermare le Camice Nere con la forza abbandonati a loro stessi, perché non erano sufficientemente ortodossi e proni ai voleri dei capi partito. E ci regalereste altri ventanni di dittatura.
Conosco gli antifascisti di vent'anni e conosco la retorica bolsa che si portano dietro. E non mancherò mai di fare dell'ironia su costoro.

25 aprile e revisionismo storico

Ma nemmeno per scherzo, non ho nessuna intenzione di parlare di 25 aprile, se non per dire che sono in Italia, c'è il sole, ieri sera mi sono spanzato di polenta e baccalà e che del 25 aprile ha smesso di fregarmene qualcosa da quando ho scoperto che all'Associazione Nazionale Partigiani si iscrivono ogni anno un sacco di ventenni. Perché bisogna averne un paio bello grosso per fare il partigiano oggi, con tutte le SS che girano per Roma e Milano.

Io ho deciso di iscrivermi all'Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini, invece. Perché no?

Tira la palla, mordi l'esca

Da circa due anni e tre appartamenti mi aspetta sul comodino un libro molto interessante: L. Canfora, La democrazia. Storia di un'ideologia, Roma-Bari 2006² – che finalmente ho iniziato a leggere. Canfora è docente di filologia classica a Bari, uno dei pochi antichisti noti al di fuori dell'ambito accademico e penna particolarmente colta, arguta e stimolante. In questo libro si traccia il percorso del concetto di democrazia a partire dalla sua origine greca per arrivare ai giorni nostri.

La storia è bella perché, quando fatta bene, scardina i luoghi comuni ed i concetti sedimentati nel senso comune. La democrazia non fa eccezione. Cercherò di non svelare il finale dell'opera, ma posso certamente anticipare la tesi di fondo: l'ideologia democratica, da sempre, reca in sé i germi della tirannide. Oltre a ciò, essa si costituisce di un'ambiguità di fondo che le impedisce di essere davvero ciò che afferma di essere: il governo di tutti. Ogni volta che un popolo si è dato un ordinamento democratico, si è anche dato dei limiti precisi su quanto democratico dovesse essere. Atene si definiva democratica, ma i diritti civili erano ristretti ad un numero limitato di persone. Gli Stati Uniti si definivano una democrazia, ma convivevano con la schiavitù ed un sistema politico decisamente elitario. E così via.

Ed in effetti la riflessione di Canfora (solidamente sostenuta sul piano espositivo e delle fonti) è talmente buona che riesce a dare spiegazione di molti fenomeni; quando il potere politico rincorre il consenso del popolo nel suo complesso, rischia di trasformarsi nel contrario della democrazia: la tirannide greca, il cesarismo romano, il bonapartismo francese, il fascismo italiano... La ricerca del massimo di libertà produce la negazione della libertà.

Questa riflessione mi ha fatto capire che viviamo tempi strani. Il nostro sistema politico-economico è talmente complesso e stratificato da essere contemporaneamente il migliore ed il peggiore che il mondo abbia conosciuto. È un mondo fatto di contrasti ed antitesi che non si ripianano ma che si alimentano a vicenda. Abbiamo un sistema economico che crea il massimo della ricchezza e contemporaneamente produce il massimo del degrado; abbiamo un sistema politico che aborre le guerra e che contemporaneamente sperimenta le più grandi devastazioni; esaltiamo la libertà come valore fondante e creiamo le più feroci dittature.

È un mondo incomprensibile al singolo, che non riesce a ricondurre ad unità le diverse spinte cui è sottoposto. Per qualche millennio i popoli sono vissuti sostanzialmente allo stesso modo, società agricole i cui codici erano dettati da necessità di ordine superiore che, in quanto tali, non permettevano né scelta né disobbedienza. Non si poteva trasgredire al volere della natura che regolava pioggia e siccità, abbondanza e scarsità, salute e malattia, morte e vita: si era dipendenti da essa e non vi era altra via che accettare l'ordine costituito. E l'ordine costituito prevedeva l'esistenza di Dio, dei suoi vicari clericali, dei suoi agenti incoronati e delle preghiere di scongiuro.

Quando però la natura ha smesso di essere madre e matrigna ed è divenuta ancella umile e sottomessa, in un poderoso effetto domino si sono fatte saltare tutte le necessità fino a prima così imprescindibili: non temiamo più la carestia, non aspettiamo più la pioggia e sfidiamo la morte inghiottendo delle pilloline bianche; così Dio non è dato più per scontato, né il suo clero né i suo agenti incoronati. Non c'è più un ordine necessario superiore, ma dato che noi abbiamo bisogno di un ordine, dobbiamo crearcene uno.

Ci è necessario sapere cosa accade di fronte a noi. Siamo istintivamente portati a classificare il reale in base al suo grado di pericolosità, di vantaggio e di utilità, ma non è facile come un tempo. In più siamo costretti ad avere un'opinione per tutto. Dobbiamo avere un'opinione per votare, per leggere il giornale, per discutere al bar, per capire il mondo. E per avere un'opinione, dobbiamo ridurre la complessità del mondo, perché eccessiva. Abolendo la complessità, classifichiamo l'esperienza secondo il criterio binario buono/cattivo. In base a questa scelta, derivano i ragionamenti.

Rivoluzione francese: essa contiene sia il germe di tutto ciò che di buono il mondo moderno ha conosciuto (libertà) come pure il male (il Terrore), ma si deve scegliere se essa sia stata buona o cattiva, perché non è concepibile che sia insieme buona e cattiva. E allora qualcuno sceglierà che sia buona, esalterà gli aspetti positivi e minimizzerà quelli negativi. Al contario, qualcuno sceglierà che sia cattiva e procederà in senso inverso.

Capitalismo: ha creato ricchezza, abolito la fame, estratto le masse contadine da una vita di stenti; ma anche creato masse di miserabili, guerre imperialiste, nuove forme di schiavitù. Si deve scegliere: è male o bene? Chi dirà che sia bene, ignorerà le parti negative; chi dirà che sia male, ignorerà ogni vantaggio da esso creato.

Per ogni avvenimento o processo storico si è di fronte a questa scelta, che è quasi inevitabile. O di qua o di là. Tertium non datur.

Sarebbe interessante comprendere quale sia il meccanismo che ci fa scegliere l'una o l'altra opzione. Probabilmente è un processo meno razionale e cosciente di quel che si creda. Forse è poco più di un caso, di una serie di accidenti slegati ma consequenziali che agiscono sulla nostra sfera emotiva. È il desiderio di dividere il mondo in “bene” e “male”, di semplificarlo ai minimi termini così da poterlo percorrere sani e salvi fino alla fine.

Su questa semplice debolezza fa leva chi ci vuole convincere: politici, venditori, preti e blogger. Ci mostrano un succoso pezzo di semplificazione e, quando lo mordiamo, un amo acuminato si aggancia al nostro palato e ci tira su, pronti a finire sul piatto del pescatore.

Io faccio così: quando leggo o sento qualcuno con la spiegazione di tutto, smetto di leggerlo o ascoltarlo e faccio altro. Cose particolarmente irrilevanti o superficiali. Per festeggiare lo scampato pericolo.